Reportage Acteal - A dieci anni da Acteal, XVI - XIX
Tentativi di occultare il massacro - I sopravvissuti identificano i cadaveri martoriati
di Hermann Bellinghausen
La Jornada
23 novembre 2007
REPORTAGE / Acteal 10 anni dopo / 16^ Parte
Tentativi di occultare il massacro
Hermann Bellinghausen – La Jornada 20 novembre 2007
Tentativi di occultare il massacro
- Funzionari statali ordinarono di cancellare le facce dei morti – Rimuovere i corpi “prima che arrivino i giornalisti”, l’ordine. – Paura in un’altra comunità per le minacce di un nuovo attacco. – Il vescovo Samuel Ruiz García definì il massacro un “crimine contro l’umanità” e segnalò il clima di violenza “crescente ed impune denunciato ripetutamente alle autorità che l’avrebbero potuto fermare”.
Hermann Bellinghausen / Parte Sedici
Il 23 novembre 1997, La Jornada coprì da Acteal, Tuxtla Guitérrez, Polhó e San Cristóbal de Las Casas i diversi pezzi del tragico avvenimento. Con un veloce operativo montato dalla Pubblica Sicurezza (SP) dello stato, con l’appoggio della Croce Rossa Messicana, da un avallamento e da una grotta si riuscirono a recuperare i 45 corpi massacrati con armi da fuoco e mutilati a colpi di machete. Tutti gli organismi coinvolti nel recupero e nell’assistenza medica (Croce Rossa, IMSS ed ERUM) e lo stesso governo del Chiapas ammisero l’omicidio di 45 persone, tutte massacrate il lunedì precedente (24 dicembre).
Sopravvissuti, feriti e testimoni intervistati da La Jornada quel martedì erano concordi nell’accusare militanti del PRI delle comunità di Los Chorros, Puebla, Chimix, Quextic, Pechiquil e Canolal di essere gli autori del massacro contro i rifugiati di Las Abejas.
Nonostante il negare insistentemente che c’erano dei morti ad Acteal, il governo di Julio César Ruiz Ferro quella mattina ordinò un operativo coordinato dal sottosegretario Uriel Jarquín Gálvez e dall’ex procuratore Jorge Enrique Hernández Aguilar, con l’obiettivo principale, secondo il consiglio autonomo, di cancellare le facce dei morti per potere manipolare a suo capriccio il loro numero.
La Croce Rossa fece rettificare
La comunicazione pubblica della delegazione della Croce Rossa Messicana a San Cristóbal provocò la reazione del governo statale. L’ordine di recuperare i cadaveri fu dato “alle quattro del mattino” di martedì. “Prima che arrivino i giornalisti”, era l’ordine. Fino a quel momento si ammetteva solo l’esistenza di cinque feriti lievi.
La Croce Rossa ricevette alle 20:07 di lunedì una chiamata del Pubblico Ministero, il quale avvisava che “c’erano degli scontri” nel municipio di Chenalhó. Tre ore e mezza dopo si mobilitavano le unità 162 e 158 della delegazione di San Cristóbal ed un’altra di Tuxtla Gutiérrez. Due delle unità si recarono nella zona e trovarono corpi senza vita in un burrone. Altre sei unità della Croce Rossa ed un altro veicolo si unirono al lavoro di recupero.
Alle quattro del mattino, il governo autorizzò la Pubblica Sicurezza e la Croce Rossa al recupero dei corpi, dopo che il Pubblico Ministero aveva svolto le relative pratiche. La Croce Rossa informò di aver recuperato 45 corpi: un neonato, 14 bambini, 21 donne e 9 uomini. I resti furono consegnati alla polizia statale che li trasferì alla città di Tuxtla Gutiérrez. Non furono autorizzati altri testimoni.
Il titolare della Procura Generale della Repubblica (PGR), Jorge Madrazo Cuéllar, comunica per televisione che le prime indagini rivelano che gli aggressori erano circa 25, erano in abiti neri, col volto coperto, e che per spostarsi avevano utilizzato tre camion di tre tonnellate.
Alle 14 circa di lunedì 22, Homero Tovilla Cristiani ed Uriel Jarquín, segretario e sottosegretario di Governo, rispettivamente, furono informati dalla diocesi di San Cristóbal de Las Casas dei fatti violenti che stavano accadendo in quei momenti nel campo profughi di Acteal, secondo rapporti di Las Abejas. I funzionari si impegnarono ad investigare sulla situazione e dare una risposta nelle prossime ore. Alle 6 del pomeriggio Tovilla Cristiani si mise in contatto con la diocesi per informare che la situazione nella comunità di Acteal era sotto controllo e si sentivano solo “alcuni spari”.
La Commissione Nazionale dei Diritti Umani aveva emesso due raccomandazioni in meno di 30 giorni al governo di Ruiz Ferro per appoggiare gli indigeni sfollati dalla violenza ed indagare sui fatti di sangue accaduti dalla seconda metà di novembre a Chenalhó. Il governo dello stato ha ignorato queste raccomandazioni ed altre emesse da organismi non governativi, e mantiene la sua politica di non ammettere che esistono circa 6.000 rifugiati, la maggioranza di Las Abejas e simpatizzanti zapatisti, in cinque comunità.
Timori di un nuovo attacco a X’Cumumal
Malgrado l’Esercito avesse raddoppiato il numero di effettivi nel capoluogo municipale di Pantelhó, a pochi chilometri da Acteal, e triplicato gli agenti di Pubblica Sicurezza nella zona, il gruppo armato di priisti minacciava quel giorno di attaccare la comunità di X’Cumumal.
Il consiglio autonomo di Polhó confermò che circa 50 uomini armati si stavano dirigendo a X’Cumumal, dove si trovavano circa 3.000 profughi dell’EZLN e Las Abejas.
Il presidente del consiglio autonomo, Domingo Pérez Paciencia, puntualizzò che il massacro di lunedì ad Acteal è la “guerra del governo” contro le comunità indigene. “Questo è quello che ci dà il governo invece di riconoscere i nostri diritti.
Ci appelliamo a tutta la società civile, nazionale ed internazionale, affinché si organizzi ed obblighi a che si disarmino immediatamente i paramilitari, ma che questo avvenga con la supervisione di organismi nazionali ed internazionali. Ed anche perchè se ne vadano i poliziotti della Pubblica Sicurezza, perché sono complici dei paramilitari”.
Il vescovo di San Cristóbal de Las Casas e presidente della Commissione Nazionale di Intermediazione, Samuel Ruiz García, definì un “crimine contro l’umanità” il massacro perpetrato ad Acteal e sottolineò il clima di violenza “crescente ed impune denunciato ripetutamente alle autorità che avrebbero potuto fermare”.
In scena i funzionari
sentiva il clima rovente che bruciava gli Altos del Chiapas, nel dare i primi risultati delle indagini aperte dalla Procura Generale della Repubblica.
Le autopsie eseguite sui 45 indigeni massacrati, “nella stragrande maggioranza dei casi mostrano che le pallottole di grosso calibro hanno una traiettoria da dietro in avanti, e questo vuole dire che gli hanno sparato alle spalle”, ratificò il viceprocuratore per le Indagini Preliminari, Everardo Moreno.
Fu chiamato a rispondere di negligenza il segretario generale di Governo, Homero Tovilla Cristiani, non avendo agito immediatamente una volta al corrente dell’aggressione, secondo la denuncia del vicario della diocesi di San Cristóbal, Gonzalo Ituarte. Si concluse che non avesse alcuna responsabilità. Il viceprocuratore Moreno affermò che nelle loro dichiarazioni gli indigeni arrestati avevano detto che “alcuni di loro appartengono al Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) ed al Partito Cardenista (PC)”.
“Sono paramilitari?”, domandarono i giornalisti a Madrazo Cuéllar. Rispose: “quello che posso dire è che hanno a che vedere con l’associazione a delinquere e col crimine organizzato; non posso usare altri aggettivi che non abbiano a che vedere con i termini strettamente giuridici e costituzionali. Si stanno portando avanti diverse linee di indagine ed azioni concrete”.
Poggia di voci
Questi gli articolisti di La Jornada che si buttano a capofitto a scrivere sull’argomento nei giorni successivi: Manuel Vázquez Montalbán, Horacio Labastida, Paulina Fernández, Adolfo Gilly, Arnoldo Kraus, Carlos Fuentes, Luis Javier Garrido, Fernando Benítez, Andrés Aubry, Angélica Inda, Luis González Souza, Adelfo Regino, José del Val, Ana Esther Ceceña, Néstor de Buen, Cristina Barros, Antonio Gershenson, Gilberto López y Rivas, José Agustín Ortiz Pinchetti, Luis Hernández Navarro, Julio Moguel, Alberto Aziz Nacif, José Blanco, Marco Rascón, Arnaldo Córdova, Antonio García de León, Carlos Monsiváis, Luis Linares Zapata, Jaime Avilés, Bernardo Bátiz, Jaime Martínez Veloz. Perfino Carlos Tello, che ne approfitta per chiedere che si compiano gli Accordi di San Andrés.
Héctor Aguilar Camín, controcorrente rispetto al resto, dalla prima pagina di La Jornada critica la “stampa pro zapatista” per mettere le cose “in bianco e nero”, perché “nessuno sano di mente” può accusare il governo di Ernesto Zedillo, se non di “omissione” per non affrontare il problema (cioè, non disfarsi in tempo degli zapatisti). E spiega: “Tuttavia, non è la guerra degli apparati ciò che rende incontrollabile e moralmente oppressiva la situazione del Chiapas, bensì l’odio interiorizzato e radicalizzato tra la gente comune, l’odio attizzato dalla vendetta familiare e dall’intolleranza religiosa, dall’avidità comunitaria e dalla contesa politica a mano armata. Non ammazzano né muoiono guardias blancas e pistoleros mercenari. Ammazzano e muoiono gente del popolo, vicini e parenti condannati a morte” (29 dicembre).
Per Eduardo Huchim (24 dicembre), “mai in questo secolo messicano la morte di massa era stata tanto annunciata. Stampa, radio e televisione avevano descritto i segnali evidenti di quello che oggi è una realtà dolorosa ed indignante. In altri tempi, il solo annuncio di quello che si preparava avrebbe avuto effetti di dissuasione efficaci. Ora sembra sia stato un incentivo”.
REPORTAGE / Acteal 10 anni dopo / 17^ Parte
Sul luogo dei fatti le impronte del lavoro di sterminio
Hermann Bellinghausen – La Jornada 21 novembre 2007
Sul luogo dei fatti tutte le impronte del lavoro di sterminio
-I poliziotti “perquisirono” case che i suoi abitanti avevano chiuso con lucchetti
-Non c’erano elementi per supporre che si trattò di un “conflitto intercomunitario” né di “vendetta”. Fu un’azione preparata e realizzata da bande armate sostenute dal municipio
-Gli aggressori identificati; tra le vittime, 21 donne ed una decina di bambini
Hermann Bellinghausen / Parte Diciassette
Acteal, 23 dicembre 1997. Dove c’è stata la morte si sente la sua presenza. Qui è appena successo il più grande massacro di donne e bambini nella storia “moderna” del Messico. In questa vallata, solcata da tuniche insanguinate e dalla distruzione di un’orda, solo l’altro ieri era stanziato un accampamento di 350 rifugiati. Le loro case erano state bruciate un mese prima ( La Jornada 24 dicembre).
Le vittime si trovavano ai bordi di Acteal, a pregare. Così, in ginocchio, dalle colline circostanti, li hanno colpiti gli spari delle armi di grosso calibro. Secondo i sopravvissuti, la sparatoria era iniziata alle 10:30 del mattino, e la Pubblica Sicurezza ammette di essere entrata ad Acteal alle 17. “Non c’era niente, e poi che qui è normale che ci siano degli spari”, dice un comandante della polizia, senza contrassegni (risulterà essere il tenente colonnello Roberto García Rivas).
Con sei ore a sua disposizione, i sicari hanno potuto eseguire il loro lavoro con efficienza numerica: la cifra dei morti è doppia dei feriti. “Non avevamo nulla con cui difenderci”, dice con rabbia Juan. Perfino ai bilingue oggi è difficile parlare castigliano. Raccontano l’orrore in tzotzil, questa mattina, a Polhó. Nella scuola di Polhó, circa 200 persone piangono. Noi giornalisti siamo rimasti lì per un’ora ed il pianto non si è mai interrotto. Tutti volevano parlare. Il traduttore ometteva delle cose; molte volte si è messo a piangere.
Una donna incinta era moribonda nella spianata dall’accampamento. Gli assassini sono andati da lei per finirla. Ed uno di loro, “con un coltello – racconta un testimone e fa un gesto ad indicare una pugnalata, che immediatamente reprime con tremore – ha tirato fuori il suo bambino e l’ha gettato là”. (La notizia originale diceva che la vittima era Rosa Gómez Cruz; un errore di nome in mezzo alla tragica confusione. Sembra che il testimone si riferisse a Catarina Luna Pérez, incinta di cinque mesi, colpita con cinque fendenti. Su questo ritorneremo più avanti).
Juana Vázquez “prima l’hanno ammazzata e poi derubata”, dice un giovane che mostra una borsa di rete. “La portavano i paramilitari quando è sbucato questo ragazzino. Gli hanno chiesto dove vai, e lui ha detto al bagno, e gli hanno detto prendi questa borsa, muoviti e quando torni ci aiuti a caricare le pallottole”. Il ragazzino al quale si riferisce, Miguel, resta in silenzio, sporco, con gli occhi spalancati. Dalla borsa di rete escono due gonne da donna, un delicato huipil ed una cintura ricamata di rosso. Il tesoro della ricamatrice lo tenevano come bottino i suoi assassini.
María, piccola madre, porta il suo piccolo sulla schiena, appoggia la testa al petto del giornalista. Trema. Sua sorella, Elena, parla: “Sono morti suo padre, suo fratello, suo cognato”. Il bambino di María, avvolto nello scialle, piange ormai stanco di piangere.
Una bambina bellissima di circa 12 anni, Guadalupe Vázquez Luna, e suo fratello, sono gli unici sopravvissuti di un’altra famiglia. Suo padre, Alonso Vázquez Gómez, era capo di zona dei catechisti. Guadalupe l’ha visto morire, così come ha visto morire la sua mamma, suo zio Victorio, che era promotore di salute, ed un fratello.
Operazione pulizia
Questa mattina, Acteal è deserto. Nel campo di pallacanestro un centinaio di poliziotti e militari della Forza Speciale vigilano a qualche centinaio di metri dal luogo del massacro. Il nostro arrivo interrompe la loro “perquisizione” delle case abbandonate i cui abitanti le avevano chiuse con i lucchetti. Tutte le case sono saccheggiate e non c’è un solo lucchetto al suo posto.
All’alba, Jorge Enrique Hernández Aguilar, ex procuratore chiapaneco e titolare del Consiglio Statale di Sicurezza, ed il sottosegretario di Governo, Uriel Jarquín, avevano sovrinteso, prima che arrivassero i giornalisti, al recupero dei cadaveri la cui esistenza ieri era stata negata dal segretario di Governo, Homero Tovilla Cristiani. Gli agenti incaricati dell’operazione hanno dovuto lavorare duramente, così come gli agenti del Pubblico Ministero. Hanno ripulito casse ed alcuni abiti insanguinati, ma non tutti.
Il sangue sporca. Si vedono ancora grosse chiazze, brandelli di vestiti insanguinati e le impronte della fuga nel fango e tra i cespugli. Anche le impronte della persecuzione. Un capo di polizia, che ha rifiutato di identificarsi ma che ieri si è presentato agli indigeni come comandante, assicura di avere visto Hernández Aguilar. “Alle quattro del mattino si vede con difficoltà”, spiega l’ufficiale, che al segnale radio Trueno risponde con Relámpago. I suoi ragazzi hanno collaborato alla raccolta di cadaveri. Conferma la cifra di 45 e ribadisce che sono qui per aiutare la popolazione; si lamenta della mancanza di fiducia.
Prima delle 7 del mattino la pulizia è completata ed i funzionari hanno portato i cadaveri al Servizio Medico forense di Tuxtla Gutiérrez. Ciò nonostante, solo nel pomeriggio di oggi il governo locale è stato in grado di definire una posizione ufficiale.
A Polhó, dove ci sono i sopravvissuti, una donna stringe tra le mani lo scialle bianco insanguinato di sua figlia Susana, che è morta. Un uomo racconta tra i singhiozzi: “Nella sparatoria sono morti tutti i suoi figli e suo nipote. Ha perso sei persone di famiglia”. A parte è morta sua nuora.
La spianata del crimine
Ieri, alle 11 del mattino, l’accampamento di Acteal era in piena confusione. Restano, malconci, le tettoie di foglie che erano state il loro rifugio. “Eravamo qui a pregare”, dice Pablo. Un grande cerchio. I primi morti sono caduti qui. Gli altri sono scappati verso la gola e praticamente sono finiti nel fiume. Le grandi felci strappate, la vegetazione intorno, gli stracci, le impronte, il sangue, le buche e le zolle sollevate mostrano la direzione della folla in fuga.
Pablo racconta come i bambini cadevano a ruzzoloni con le loro mamme. I bambini piccoli cadevano e correvano. Lui si preoccupava di suo figlio. Altri si caricavano i feriti. I paramilitari non smettevano di sparare ma non si avventuravano fino al burrone. Gli è bastato andare nella grotta in cui alcuni si erano rifugiati e lasciare l’avvallamento del fiume disseminato di cadaveri.
“Gli hanno sparato dall’alto”, indica Pablo scendendo, e fa un salto. Il potere di fuoco che li ha colpiti, a giudicare dalle ferite dei ricoverati a San Cristóbal, non è mai diminuito. Pallottole ad espansione, secondo Pablo, e carabine. Lui li ha visti. Ha riconosciuto molti degli aggressori. Non tutti avevano il volto coperto. Molti ragazzi portavano un paliacate legato dietro la nuca e si sentivano grandi guerrieri. Ventuno donne, una decina di bambini: un buon record.
Le vittime li chiamano “i priisti”, ma molte comunità priiste non sono colpevoli dell’attacco. Si tratta di bande armate che hanno ricevuto addestramento militare e l’appoggio del municipio ufficiale. Giovani addestrati, trasformati, che hanno attaccato contando sul Natale. Non esistono elementi per supporre un atto “di vendetta” o “conflitto intercomunitario”, come dice oggi la radio statale. I notiziari parlano di morti a colpi di machete e sassate. Cose da indios selvaggi.
Falso. Il lavoro di sterminio è stato efficiente, ed a suo modo pulito. Si può non drammatizzare questa forma di morte fredda, calcolata, preparata ed annunciata? Niente a che vedere con beghe famigliari o divergenze politiche. Non è una guerra civile. Chenalhó è uno scenario, un laboratorio, una messa in pratica. Da manuale.
Uno dei feriti a San Cristóbal è stato identificato come paramilitare. È controllato dalla Pubblica Sicurezza. Di molti altri paramilitari i sopravvissuti conoscono i nomi. “Ragazzi diventati cattivi”, afferma Juan, abbattuto come tutti quelli di Acteal, Chimix e Polhó. Ma inoltre, molto indignato, dice i nomi di un certo Javier, Felipe, José e Noé che conosce. Sono di Acteal, La Esperanza, Puebla, Los Chorros, Bajo Beltic, Yibeljoj, Naranjatic, e li ha visti venire ad uccidere. Li ha visti uccidere dappertutto.
Dopo avere ricostruito la direzione della fuga, Pablo e Javier ci portano a vedere le case di un altro quartiere di Acteal. Javier arriva a casa sua, vede un filo di ferro messo male dove lui ieri aveva messo un lucchetto. È delle basi zapatiste. Il “mio registratore!”, esclama scoprendo la sua assenza nella casa saccheggiata. Ogni casa che visitiamo è distrutta. “Questi non sono stati i paramilitari. Loro avrebbero bruciato tutto. Sono stati i poliziotti”. Poco dopo trova nella camera da letto un cappello della polizia. Lo raccoglie, lo porta al naso con sorprendente istinto dice: “puzza di caxlán“ [meticcio – n.d.t.].
Cominciano ad arrivare uomini di Acteal per raccogliere il caffè che avevano lasciato ad asciugare nei sacchi. Pullulano cani senza padrone che ci si attaccano per avere compagnia.
All’imbrunire, l’Esercito sposta centinaia di effettivi a Chenalhó. A Polhó informano che ci sono spari a Puebla, Los Chorros e Tzajalcum, da dove provengono i paramilitari. E che minacciano di attaccare altri accampamenti di rifugiati. Cade la notte. Acteal oggi è la bocca dell’abisso.
REPORTAGE / Acteal 10 anni dopo / 18^ Parte
Stupore nel mondo per il massacro
Hermann Bellinghausen – La Jornada 22 novembre 2007
In alcuni paesi erano avvenuti episodi peggiori, ma mai avevano avuto una tale ripercussione
La fredda parsimonia del governo messicano rispetto a quanto succedeva nel municipio di Chenalhó si continua a vedere dopo dieci anni
L’acutizzazione della violenza ha a che vedere con l’interruzione del dialogo: Samuel Ruiz
Hermann Bellinghausen/ Parte Diciotto
La Vigilia di Natale del 1997 tutti i media stampati ed elettronici parlano del massacro. Il mondo è allarmato. Molto più che di fronte ad altre atrocità simili del passato e del presente. Tempo dopo, ci furono guatemaltechi e salvadoregni che espressero sorpresa per le reazioni internazionali per Acteal. Nei loro paesi erano accaduti episodi anche peggiori, ma mai avevano avuto una tale ripercussione.
Deputati, senatori, vescovi, osservatori internazionali, avvocati, funzionari e giornalisti avevano conosciuto le vittime di persona. Solo giorni prima erano degli indigeni profughi che angosciavano la società civile. La fredda parsimonia del governo messicano davanti a quello che succedeva in Chenalhó si continua a vedere dopo dieci anni.
Lo stesso giorno del massacro, mentre questo succedeva, il sottosegretario di Governo del Chiapas, Uriel Jarquín Gálvez, si affannava a smentire – in un’inserzione a pagamento – il supplemento Masiosare di La Jornada, che alla vigilia aveva documentato la partecipazione di diversi enti ufficiali nel finanziamento del gruppo Paz y Justicia. “Il governo federale e statale non appoggiano l ‘insurgencia né la cosiddetta ‘contrainsurgencia‘. Combattono, questo sì, il nemico comune di tutti i chiapanechi: la povertà” ( La Jornada, 23 dicembre).
L’informazione “negata” dalle autorità rivelava, con prove scritte, la presenza e la firma come “testimone d’onore” nella consegna di risorse a Paz y Justicia nella zona nord, del generale Mario Renán Castillo Fernández, quando era ancora il comandante dell’occupazione militare dei territori indigeni del Chiapas ( Masiosare, 21 dicembre). Poche volte una smentita ufficiale è caduta così nel vuoto.
La Jornada registra anche le opinioni dell’ex guerrigliero e consulente governativo Gustavo Hirales, per il quale riferirsi a Paz y Justicia come struttura paramilitare “è un mito creato dai dipartimenti ufficiosi di propaganda dell’EZLN, la diocesi di San Cristóbal e le sue cinghie di trasmissione”. Poco prima del massacro, Hirales sosteneva su El Nacional, giornale della Segreteria di Governo, che è una “favola ed un mito prefabbricato” che in Chiapas ci “sia una guerra di bassa intensità guidata dai più alti livelli dello Stato”.
Il presidente Ernesto Zedillo rivolse un messaggio alla nazione il giorno 23, dove dichiarava che “non esiste nessuna circostanza che possa giustificare questo crudele, assurdo, inaccettabile atto criminale”. Il fatto “riempie di lutto tutta la nazione, è un fatto che ci fa male ed offende tutti i messicani”. Il mandatario si impegnò a che i responsabili avrebbero ricevuto “tutto il peso della legge”.
L’Esercito federale si dichiarò in “massima allerta”. Col pretesto di un presunto “forte movimento di truppe zapatiste”, distribuì altre migliaia di soldati sulle montagne del Chiapas e riprese i pattugliamenti “in tutta la zona controllata dall’EZLN”. In poche ore arrivarono nello stato più di cinquemila soldati; la metà si stabilirono immediatamente a Chenalhó ( La Jornada, 24 e 26 dicembre).
Il Congresso Nazionale Indigeno, il PAN ed il PRD chiesero la scomparsa dei poteri in Chiapas (mai avvenuta). Il segretario di Governo, Emilio Chuayffet, negò che il governo auspicasse atti illegali. Il dirigente nazionale del PRI, Mariano Palacios Alcocer, avrebbe detto e ripetuto più volte che il suo partito non aveva niente a che vedere col massacro, e che se vi avevano partecipato dei priisti, questo era “a titolo personale”.
La Segreteria delle Relazioni Estere respinse le “dichiarazioni di portavoci o funzionari di governi stranieri od organismi internazionali” che chiedevano azioni al governo messicano in relazione “all’omicidio collettivo di Acteal” (notare l’eufemismo usato dalla Segreteria). La cancelleria di Angelo Gurría dichiarò: “questo costituisce un inaccettabile atto di ingerenza negli affari interni del Messico, paese che si è caratterizzato per il suo invariabile rispetto al principio di non intervento” ( La Jornada, 26 dicembre). Adesso sì, difendere la sovranità, nonostante le reazioni del suo amico, il mandatario statunitense Bill Clinton, che aveva manifestato la sua indignazione. Il primo ministro francese Lionel Jospin manifestò “profonda costernazione” e invitò il governo zedillista a “trovare i responsabili di questo massacro che non deve restare senza punizione”.
Arrestati i primi assassini
Da Chenalhó, La Jornada informa in dettaglio sugli eventi successivi al massacro. il 25 dicembre si svolge la sepoltura delle vittime nella stessa Acteal. A circa 200 metri da dove furono uccisi, i 45 corpi mutilati, distrutti e decomposti degli indigeni ricevono sepoltura il giovedì ( La Jornada, 26 dicembre).
Il vescovo Samuel Ruiz García sottolineò che l’acuirsi della violenza in Chiapas aveva a che vedere con l’interruzione del dialogo in San Andrés Larráinzar tra il governo e gli zapatisti, e con la crescita dei “gruppi paramilitari che ci hanno detto che non esistevano, ma che sono apparsi a Chenalhó”.
A partire dalle otto del mattino, con i loro abiti tradizionali, centinaia di tzotziles che la notte precedente avevano vegliato i loro morti, hanno percorso il corteo funebre da Polhó fino ad Acteal. Davanti, due bambini portavano un cartello: “Erode lo voleva, ma non è riuscito a distruggere la creatura. Nemmeno oggi riuscirà, anche se tanti innocenti dovranno fecondare col loro sangue questo suolo duro ed arido”.
Da 20 minuti stavano percorrendo la strada tra i capoluoghi municipali di Chenalhó e Pantelhó, quando un camion di tre tonnellate fermava la sua marcia vicino a loro. I familiari degli indigeni assassinati indicarono subito alcuni degli occupanti come parte dei gruppi paramilitari che avevano crivellato di colpi le 45 persone di Las Abejas.
Il camion fu bloccato e 21 dei suoi passeggeri, tra loro uno con un giubbotto antiproiettile, furono obbligati a scendere. Tre di loro furono trascinati per i capelli per essere consegnati come “assassini” a Jorge García Sánchez, agente del Pubblico Ministero Federale.
Mireille Roccatti, presidentessa della Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH), durante il funerale ad Acteal assicurò che il governo di Julio César Ruiz Ferro aveva compiuto pochi progressi in quanto alle misure cautelari che doveva realizzare per i profughi della violenza. Roccatti segnalò che esisteva una richiesta esplicita al governo dello stato per fornire, “in maniera immediata”, aiuti umanitari alla popolazione sfollata dalla violenza politica nel municipio di Chenalhó.
La funzionerebbe ricordò che era stato chiesto di adottare “le misure necessarie perché i profughi possano ritornare nelle loro comunità di origine, con tutte le garanzie per la loro sicurezza personale durante il loro ritorno e permanenza nelle proprie case”. Tuttavia, si rifiutò di fornire qualsiasi informazione sull’avanzamento dell’indagine sul massacro, dichiarando che sarebbero state diffuse “nei prossimi giorni”.
Il sindaco grato
Il sindaco Jacinto Arias Cruz ringraziò il presidente Ernesto Zedillo per il “suo appoggio ed intervento per fare luce sui fatti violenti di lunedì scorso in questo municipio”. In una lettera indirizzata al capo dell’Esecutivo federale, anche il presidente municipale ringraziò il governatore Ruiz Ferro per i suoi sforzi “per arrivare al chiarimento di tutti i fatti di violenza registrati a Chenalhó”.
Il sindaco priista ricordò che dal maggio precedente erano costanti gli scontri tra indiegeni della regione e dichiarò che le 45 persone “sono state massacrate da criminali”. Poco dopo, egli stesso sarebbe stato fermato come complice e promotore del massacro.
Dopo il giorno 22 affiorarono molti altri dettagli sulla preparazione dell’attacco. Vicente, indigeno che aveva partecipato alle ultime negoziazioni tra autonomi ed ufficiali a Las Limas, raccontò il suo incontro a Chimix con i paramilitari, il giorno dell’ultimo incontro. Erano ubriachi quando lo minacciarono. “L’alcol si sente da lontano”. Invece, disse, gli aggressori ad Acteal “non puzzavano di niente. Sbavavano”, e si passava la mano sulla bocca, con schifo: “come cani rabbiosi”. ( La Jornada, 27 dicembre). Altri testimoni concordavano sul fatto che gli aggressori “sembravano drogati” mentre eseguivano il terribile crimine.
Vicente ricordò che agli inizi di dicembre il governo di Chenalhó inviò armi in sacchi di grano. Aveva obbligato un autotrasportatore a portare il carico fino a Tzajalucum, ma questi l’aveva scaricato a Majomut, dopo aver passato senza problemi un posto di blocco della polizia. Una volta a destinazione, i sacchi, riporta la notizia, “i paramilitari videro che c’erano carabine e fucili di piccolo calibro. Rifiutarono i secondi adducendo che: ‘non servono. Vogliamo armi che ammazzano per bene’. Giorni dopo ricevettero delle armi con le caratteristiche richieste”.
REPORTAGE / Acteal 10 anni dopo / 19^ Parte
I sopravvissuti identificano i cadaveri martoriati
Hermann Bellinghausen – La Jornada 23 novembre 2007
Samuel Ruiz: “È il Natale più triste della nostra vita”
La CNDH fa aprire le 45 bare; si sparge l’odore
“Loro, i nostri padri e madri, faranno sì che si realizzi il sogno della giustizia. Il loro sangue irrigherà il nostro suolo, la nostra milpa, la nostra casa, affinché nasca la pace e splenda la giustizia”
Hermann Bellinghausen / Parte Diciannove
Acteal, 25 dicembre 1997. A poco a poco sale l’odore, circondando con la sua calda forza tutto questo immenso e solo in apparenza silenzioso dolore dei tzotziles. No, non è la pestilenza della morte, anche se mentre avanza la mattina le 45 casse si riempiono di mosche, a migliaia, golose. Non è nemmeno l’odore dolciastro di questa terra rimossa e tanto calpestata in così pochi giorni. I sopravvissuti del massacro di Acteal portano il loro dolore e la loro rabbia con una grandezza immune a tutto. Ormai, che altro può succedergli?
Mariano, in cima alla spianata che occupano le bare di tutti i suoi morti, insieme alle altre autorità tradizionali del villaggio di Chenalhó, presiede la messa funebre officiata dal vescovo Samuel Ruiz García, che definisce questo “Il Natale più triste della nostra vita”.
Rappresentante di Pace di Acteal, Mariano è l’unico delle centinaia di uomini presenti che indossa il cappello cerimoniale di nastri. Egli guida la cerimonia. È lui che parla agli uomini ed alle donne di Quextic e La Esperanza i cui famigliari sono venuti qua a morire. Nello stesso tempo sovrintende allo scavo delle due grandi fosse di due metri per 20, che in questo momento tiene occupati decine di uomini e ragazzi che con vanghe e picconi rompono la terra. Mariano distribuisce crisantemi bianchi alle donne e chiede loro di metterli sulle bare dei loro congiunti. Lui stesso va a deporne uno sulla bara di sua moglie, ed altri due su quelle delle sue figlie. Su ognuna si piega e deposita un bacio.
È uno degli uomini più rispettati di Chenalhó. Il suo incarico precedente, fino a pochi mesi fa, era di pashión, massima autorità spirituale. Per un anno sulle sue spalle si è posato il peso dall’universo. In cima al campo di casse, Mariano parla con chiarezza. Piange anche. È rimasto solo lui e suo figlio di 12 anni. Lo circondano le altre autorità mentre si svolge la messa concelebrata da Ruiz García ed altri sacerdoti della diocesi di San Cristóbal de las Casas.
Crisantemi e articoli costituzionali
Hanno parlato diversi uomini, come d’abitudine quando sono in assemblea. Uno dice al vescovo: “Anche io morirò, ma voglio giustizia, che siano puniti i colpevoli, i priisti, principalmente. Non m’importano le differenze di organizzazione né partito politico”. Ed invoca la Costituzione, durante la messa: “C’è l’articolo 24 che prevede il rispetto dei partiti e delle religioni. Dov’è finito l’articolo 24, signor governatore?”
Anche le altre autorità distribuiscono i crisantemi alle donne. Un catechista, indicando le bare, dichiara durante la cerimonia: “loro, i nostri padri e madri, faranno sì che si realizzi il sogno della giustizia. Il loro sangue irrigherà il nostro suolo, la nostra milpa, la nostra casa, affinché nasca la pace e splenda la giustizia”. Crede all’intercessione degli antenati presso le potenze superiori. Così, dice dei caduti: “tutti e tutte loro faranno sì che la parola parli”.
Con ammirevole sobrietà, i sopravvissuti ascoltavano il Tatic parlare del perdono, nello stesso luogo in cui erano caduti i loro famigliari. Samuel Ruiz García è andato da loro fin da presto. Prima della messa era rimasto seduto di fronte agli indigeni riuniti nella spianata a scavare la fossa. Per ore, solo ed in silenzio, ha guardato questo campo seminato di cadaveri. Sicuramente ha sentito, come tutti i presenti, l’impressionante pace, oltre le lacrime, che irradiavano gli indigeni di Las Abejas.
Pochi metri sopra questa spianata passa la strada dalla quale la mattina di lunedì sono arrivati gli assassini. Sulla quale oggi, presto, transitavano alcune delle persone coinvolte su un veicolo ufficiale, si presume protette dalla polizia municipale del municipio costituzionale di Chenalhó che viaggiava su un altro veicolo.
Per caso sono passati dal posto, ed in mezzo al corteo, membri del gruppo paramilitare che ha perpetrato il crimine. Sono stati riconosciuti dalla processione che portava i 45 corpi dal vicino villaggio di Polhó, dove ieri sera le autorità di Tuxtla e della Federazione li avevano consegnati ai comandi del municipio autonomo.
Il governo mandava i paramilitari ad un eventuale linciaggio, mettendoli nelle mani dei sopravvissuti? La disciplina delle basi zapatiste che accompagnavano il corteo e la presenza del Tatic hanno impedito che i paramilitari fossero aggrediti. Siccome insieme al corteo funebre c’erano la Polizia Giudiziale Federale e la CNDH, i sospetti sono stati catturati immediatamente, non lontano dal nuovissimo accampamento dell’Esercito installato nella scuola primaria di Acteal.
Più tardi, durante la messa, un uomo ben vestito scese dalla strada, attraversò con sfacciataggine la spianata piena di indigeni e si diresse verso l’eremo, a 50 metri dal posto. Forse l’unico tra le migliaia di presenti con giacca e pantaloni. Ostentava una pistola infilata nella cintura in vita. Dopo qualche minuto apparve Gustavo Moscoso Zenteno, magistrato del Tribunale Superiore di Giustizia del Chiapas e rappresentante del governo di Ruiz Ferro ai negoziati di pace e riconciliazione culminati nel massacro.
Cercava Mireille Roccatti, titolare della CNDH, ma questa se n’era già andata. Rimase comunque per un momento al funerale. Qui incarnava il governo. Non è stato male che fosse presente, anche solo per pochi minuti, alla terribile cerimonia. Non è stato male che anche lui venisse avvolto da questo odore.
A pochi passi, sotto le malconce tettoie dell’accampamento in rovina e da oggi cimitero, le donne, nell’ombra, si occupano ed allattano i figli. Uno di loro vomita bile, con dolore. Una neonata piange. Altri bambini giocano con circospezione. Passa il figlio di Mariano con una borsa di rete legata in fronte. Ha ereditato la borsa da suo padre. Un principe senza terra. Sorride tristemente e si perde tra gli uomini che aspettano il loro turno per scavare le fosse. “Non una fossa comune, ma comunitaria”, secondo Carlos Monsiváis, testimone della conclusione dell’ignominia.
La presenza governativa
Poi, la brutale procedura burocratica: identificare i cadaveri. Per incredibile che sembri, le autorità del governo chiapaneco non hanno mai eseguito questa procedura, cosa che molti osservatori ritengono un’altra manovra di occultamento. Un’altra. Ora è di competenza federale. Un agente, uno solo, della Polizia Giudiziale Federale, ascolta, corrucciato, decine di denunce. La storia di X’Cumumal, comunità circondata dai paramilitari e dalla polizia, dove stanno per morire di fame più di 3.000 profughi. Suda, mentre ascolta la storia delle donne rapite a Pechequil, obbligate dai priisti ai lavori forzati sotto minaccia di morte.
Qui si inumano cinque donne incinta. La PGR ha parlato solo di due nel suo rapporto. Due sono morte per colpi di machete. Un’altra, Juana Pérez Pérez, di 33 anni e sette mesi di gravidanza, è stata colpita al torace da una pallottola ad espansione, dall’alto verso il basso, causando la fuoriuscita dei visceri.
Da informazioni confermate da Las Abejas, Rosa Pérez Pérez, con due ferite nel torace, è esploso il cuore, ha ricevuto un colpo di machete. Marcela Capote Vázquez, di 15 anni, proiettile nel torace. María Gómez Ruiz due spari alla schiena, come tutti gli altri bambini uccisi. Rosa Gómez, incinta, è sopravvissuta, non il suo bambino.
Gli operai della CNDH fanno aprire una alla volta le 45 bare dopo mezzogiorno. I parenti dei morti affrontano il riconoscimento su questi corpi martoriati. Per decomposizione o per effetto della violenza, alcuni sono irriconoscibili. L’odore si diffonde. Le mosche aumentano. Così, una bara che dice “adulto femmina” o “bambino maschio” riacquista il suo nome per ultima volta.
Piangendo o in silenzio, le donne mettono nelle bare scarpe, coperte e huipiles sui loro congiunti nudi, come li hanno consegnati l’altro ieri le autorità, i corpi avvolti ora in borse di plastica. Ad una donna sua sorella mette cinque huipiles nuovi, uno scialle, una cintura, tutti ricamati e mai indossati dalla defunta.
Mariano e le altre autorità organizzano il trasporto delle casse fino alle fosse. Alcuni membri della carovana Para Todos Todo aiutano gli uomini. Non ci sono né fatica né fretta. Giovani della capitale, donne di città che, come gli altri, a malapena comprendono ciò che succede.
L’espressione “ qui giace”, frequente in queste terre per fare capire il luogo di una morte, è valida due volte. Qui c’erano le vittime, qui sacrificate. Questa è la penitenza che impongono i profughi a questa terra crudele dove, secondo le loro tradizioni, lasciano seminata la memoria. I vivi portano sulle spalle tutto il peso dell’universo. Ora, spogliati tra gli spogliati, questi contadini non hanno più nulla ( La Jornada, 26 dicembre).
*Tutte le date tra parentesi corrispondono a notizie pubblicate da La Jornada.
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