<i>"The Name of Our Country is América" - Simon Bolivar</i> The Narco News Bulletin<br><small>Reporting on the War on Drugs and Democracy from Latin America
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Narco News Issue #45

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Conferenza “Etica e Politica” Auditorium Che Guevara, 8 giugno 2007

“Due Politiche ed una Etica”


di Subcomandante Insurgente Marcos
Enlace Zapatista

11 giugno 2007

Vogliamo ringraziare i compagni e le compagne dei gruppi e dei collettivi riuniti nel “OkupaChe”, per l’aiuto offerto per la realizzazione di questa tavola rotonda.

Quelli in alto ci avevano proposto altri posti, “meglio attrezzati”, dicevano, “più comodi”. Come se l’etica e la politica fossero una questione di comodità e come se per gli zapatisti la cosa più importante fosse lo spazio e non l’ascolto che, generosamente, ci prestate voi ora.

E questo lo scrivo prima di dirlo, supponendo che qualcuno sia venuto a questa tavola rotonda che, per essere alla moda, occupa oramai il primo posto per defezioni. Mancava solo che la stessa tavola declinasse l’invito.

Etica e Politica. A noi è venuto in mente questo tema. Nel viavai mediatico che offre pillole soporifere a chi non vuole vegliare, svelare e disvelare la realtà, ci sono diverse cose che sembrano essere assenti. Il Potere parafrasa Pablo Neruda e ci recita, con tripudio, “Mi piaci quando taci perché sei come in attesa”... di quello che dico, e sei come distante… aspettando i prossimi saldi di stagione, cioè, le prossime elezioni”.

E’ stata quindi nostra l’idea che bisognasse nominare ciò che è assente, quello che ora sembra non solo escludersi reciprocamente, l’etica e la politica in questo caso, ma che si presenta anche come se fosse logico, ragionevole, comprensibile, giustificabile, approvabile… e tutti gli “abile” del caso.

Nominare l’assente è uno dei modi di ravvivare la memoria che si rivolge anche in avanti. Ed abbiamo scelto il tema dell’etica non solo per denunciare il suo esilio e la sua assenza dalla politica dell’alto, oltre ad essere relegata nello spazio dell’accademia; ma anche per denunciare o indicare qualche pista affinché, nel basso che stiamo elevando, alla fine l’etica e la politica si abbraccino nell’unico modo in cui possono farlo, cioè, essendo “altre”.

Quando si tratta solo di parole, sembrerebbe non esserci nessun problema nel parlare di etica e politica. Si possono scrivere libri, fare lezioni, ricerche e, a volte, perfino partecipare a tavole rotonde. Chiaro, a patto che non siano nel Che Guevara di Lettere e Filosofia della UNAM.

Ma, portarla in un luogo proprio della politica? Andiamo, questo è da ingenui, puristi o da candidi idealisti malati di giovinezza. Sarà la realtà a recitare i versi che dicono: “Giovinezza, divino tesoro, vai per non tornare, quando voglio un posto (o una borsa di studio) piango, ed a volte piango senza volerlo”.

Ma, se nominiamo l’assente, allora domandiamoci:

Quando e come l’etica e la politica hanno preso queste strade?

L’etica, la strada asettica e mediocre dell’accademia.

La politica, la strada dei “realisti” cinismo e spudoratezza.

Quand’è che l’intellighenzia progressista ha rinunciato all’analisi critica e si è trasformata nella triste piagnona delle sconfitte e fallimenti di una parte della classe politica morta ormai da anni?

Quando è avvenuta questa magica alchimia che ha fatto degli intellettuali progressisti i giustificatori, e non poche volte gli adulatori, di una “sinistra” tanto tra virgolette e tanto a destra che devono fare giochi di prestigio per tirarla fuori della sua collocazione reale nello spettro politico?

Quand’è che l’etica ha smesso di essere un riferimento ed è stata sostituita dai sondaggi, dal rating, dagli agglomerati di masse o di voti, arrivando così a paragonare il presidio contro la frode elettorale del 2006 col recente concerto di Shakira nello zócalo?

“Bisogna stare dove c’è la gente”, hanno detto. Dunque sicuramente erano lì, quando Shakira mostrava quello che io, umilmente e con le mie modeste possibilità, le ho insegnato. Ma questo è stato tanto tempo fa. Adesso, solo con molto sforzo muovo i fianchi ogni volta che mi accomodo sul sedile, nei lunghi viaggi del nostro giro per l’Altro Messico, quello del basso, quello della sinistra senza virgolette, senza presupposti e senza corrispondenti assegnati.

Ma sto divagando. Basta giochi di parole. Stiamo parlando di cose serie e dobbiamo essere seri, formali, noiosi.

Ritorniamo dunque alle domande:

Quand’è che la casta parassita della classe politica messicana, analisti e presentatori che l’accompagnano, si è trasformata in una disordinata squadra di buffoni senza pubblico e senza commedia?

Quand’è che le notizie sulle trasformazioni della classe politica sono finite, ovviamente nel ribasso del rating, nella striscia comica dei media elettronici?

Quand’è che il reiterato processo di sostituzione di identità ha cominciato ad essere acclamato, se era (o è), come in questa università, la Nazionale Autonoma del Messico, un’imposizione dove nessuno cerca di non restarne fuori, ed in cambio offre il contorno ad una “sinistra” tanto per bene che non solo “risalta” nelle foto, ma che contrasta con questa generazione di giovani (cioè, noi, la banda, la razza, gli altri, gli sporchi, i brutti, i cattivi e, per la parità di genere, anche le sporche, le brutte, le cattive); noi, le giraffe ed i giraffi che incontriamo, non l’analisi critica, ma il disprezzo, lo scherno e la persecuzione da parte di quelli che si autodefiniscono “la classe pensante”?

Senti giovanotto, la differenza fondamentale tra la Torre del Rettorato e l’auditorium Che Guevara è il presupposto. Che mi importa quello che si fa lì in basso se non posso annunciarlo sulla gazzetta universitaria e riscuoterlo poi con le fatture “tutto compreso”. Per favore, giovanotto, sii realista: la comunità universitaria è qui in alto. Là fuori ci sono i clienti, sì, i clienti nel momento dei laboratori, delle borse di studio, i corsi, le iscrizioni, i posti e… i cambiamenti nelle direzioni e del rettorato. L’etica? Mmm… mi suona. Quanto è quotata?

E che ne è stato della “sinistra” (ho già messo così tante virgolette per “sinistra” che temo che ormai siano finite sulla tastiera) che ha preso la via elettorale (qualcosa di comprensibile e valido) ed in questo passaggio ha abbandonato i principi, cioè, l’identità, come fossero non solo un mucchio di spazzatura, ma anche una zavorra?

Con uno strano ragionamento, gli evidenti fallimenti non hanno portato a riproporre il luogo dei principi dell’ambito politico che si reclamava, e si reclama, come la lotta per la giustizia, quell’eterno assente nel Messico del Basso – e nel mondo -.

No, se si sono persi o sono stati rubati (la differenza sta nella quantità di pubblicità pagata per ogni bando) è perché è mancata la “strategia dei media”, come ora si chiama la claudicazione nei principi, la sottomissione al Re Mida del potere che tutto ciò che tocca trasforma in merda.

Ed è fallita “la politica delle alleanze”, come adesso si chiama il servile corteggiamento alla classe dominante che, è vero, è civettuola, ma sempre fedele ai suoi interessi.

E sono falliti gli accordi e “l’unità” ad ogni costo, per qualsiasi posto. “Uniamoci”, dicevano, ma in realtà pensavano: “subordina”, “dimentica”, “arrenditi”.

E chi ha detto e dice “NO!” è “settario”, “infantile”, “fa il gioco della destra”. Ed hanno strappato dalle pareti le foto degli zapatisti per mettere al loro posto quelle dei calunniatori, persecutori ed assassini degli indigeni zapatisti: Gustavo Iruegas, Arturo Nuñez, Ricardo Monreal e dell’autodenominato rettore della UNAM, il signorino Juan Ramón De La Fuente, tra altri.

Ed hanno acceso le loro candele… mentre quelli dell’altra parte accendevano i riflettori mediatici.

In Messico, là in alto possono dire, senza nemmeno vergognarsi, che va bene che si picchi e si metta in prigione la gente del basso, gente che si sbatte ogni giorno per guadagnare onestamente qualcosa da portare alla propria famiglia, che viene privata della sua casa, del suo piccolo commercio, della sua merce, del suo sostentamento vitale, che si applauda (o si taccia, che è una forma più vile di applaudire) che, come nella guerra di conquista, si derubi – in alto dicono si espropri – di interi territori una città, per consegnarli poi ai grandi investitori che, basta un po’ di memoria, sono gli eroi e gli alleati di oggi… ed i traditori di domani.

E’ il caso di Carlos Slim, l’alleato dell’altrieri, il traditore di ieri, l’amico di oggi, l’alleato di domani, il traditore di dopodomani, è il bottone di lusso della dimostrazione occulta del Potere. Sto parlando di Città del Messico, del quartiere di Tepito e della sua gente, di Iztapalapa e della sua gente, di Santa María La Rivera e della sua gente.

Senza nessun procedimento giudiziario, si attacca e si deruba. Ed i media suppliscono i mandati di cattura e si trasformano in giudici e boia: “Erano dediti al narcotraffico”, denunciano. E nessuno di quelli che fanno del pensiero il proprio lavoro, dice niente. Neanche per domandare la cosa più elementare, cioè, “Se erano narcotrafficanti, perché vivevano dove vivevano?” Invece di domande, prove: “Qualche motivo ci sarà”, “se lo meritano”, “qualcosa avranno fatto”, e quindi voltarsi dall’altra parte a guardare un concerto nello zócalo, una piazza piena per qualche foto dove le persone sono solo pezzi in un’ordinata esposizione di pelli nude, tutto ciò che non richieda impegno, messa in discussione, etica.

Sembra che, con l’attacco neoliberale, in Messico non solo sono crollate le regole non scritte della politica ed il riferimento al politico come “uomo di Stato”. Ma, tra i resti del naufragio dell’intera classe politica messicana giacciono anche: la dignità, la decenza… e la vergogna.

Sembra che i confini dell’onestà e della vergogna si siano allargati a tal punto che non sembra esserci più limite. Uno strano ragionamento recita: “Secondo i sondaggi elettorali, i miei nemici possono essere i miei amici”, ed Elba Esther Gordillo smetterà di essere una strega quando si “metterà” col Fronte Ampio Oppositore, e sarà allora una grande attivista sociale ed un esempio per il magistero… per chi ha sfruttato, perseguito, tradito ed assassinato. Ed i politici sono spazzatura riciclabile: adesso i nuovi “eroi” e “progressisti” sono Manuel Barttlet, Javier Corral e Sauri Riancho. Sicuramente il Dialogo Nazionale li inviterà alla sua prossima riunione, anche se non sa quali siano “le basi operaie e contadine” che vanta questo trio di spudorati, né i giochi di prestigio che faranno i suoi dirigenti per giustificare l’invito.

Io so che più d’uno tirerà fuori citazioni di Lenin per giustificare quello che si fa e si disfa. Dopotutto, Lenin è utile per tutto… anche per contraddirlo.

Ma siamo lontani dalla Russia Zarista, dal Palazzo d’Inverno e dalla Duma.

Là in alto, il secolo XXI in Messico ha aggiunto alla mancanza di ingegno, intelligenza e coraggio, la mancanza di vergogna.

Se con Miguel De La Madrid si ripeté il ciclo di un presidente mediocre, seguito da un presidente vigliacco (Carlos Salinas de Gortari) e poi un presidente imbecille (Ernesto Zedillo Ponce de León), con Fox e Calderón sembra che si sia inceppato l’hard disk della cibernetica politica perché non appaiono né i mediocri né i codardi, e regnano gli imbecilli, o credono di farlo, o fingono, o non gli importa nemmeno di simularlo.

Felipe Calderón Hinojosa, non solo basso di statura, si perde nelle foto dove abbondano il verde oliva ed i grigi. “Vinciamo!”, dice, ma tutti sappiamo chi è compreso in questo plurale e chi no.

Ogni giorno che passa c’è sempre più sangue per le strade e nei campi del Messico, ed egli promuove all’estero lo stesso finto Messico ereditato da Fox.

E con spudoratezza spiega ai possibili compratori: “I ragazzi (riferendosi a soldati e poliziotti) stanno ripulendo il posto. Fanno un po’ di chiasso, vero, ma presto sarà tutto pulito. Soprattutto dai messicani, che sono il principale disturbo. Vedrà come, presto, dove prima c’era un paese, ci sarà un terreno libero dove potrà investire in quello che vuole”.

Ah! I media: a farci scegliere tra Espino e Calderón. Chi sarà ora il meno peggio?

Lo ripetiamo: là in alto non c’è niente da fare, neanche le barzellette.

Per questo oggi siamo qui, con voi. Perché crediamo, e per noi “credere” è sinonimo di “fare”, e “fare” è sinonimo di “lottare”, e “lottare” è sinonimo di “sognare”, che sia possibile costruire un altro modo di fare politica, e che la sua impalcatura principale sia l’etica, un’altra etica.

Prima ho cercato di spiegare che noi zapatisti siamo guerrieri e guerriere. E questo non solo vuol dire che ci riteniamo attivisti, a volte sulla difensiva e a volte all’offensiva. Ma che abbiamo un’etica che poco o niente ha a che vedere con quello che si insegna o si vuole insegnare nelle aule, sui libri o alle tavole rotonde con defezioni incluse, ma ha a che vedere con l’impegno.

La nostra posizione ha meritato il disprezzo e la critica dei neo-apologeti dell’indifendibile, cioè, di una classe politica che al fango ed al sangue che macchiano le sue mani, aggiunge ora il cinismo di presentare la sua claudicazione come “maturità”, “modernità” e “realismo”.

Paradossalmente, ricordo ora che ci hanno offerto comodità per questa tavola quadrata, proprio a noi, che da quando siamo venuti fuori siamo stati i costanti e rumorosi incomodi per questo settore di pensiero.

José Martí una volta disse che l’uomo vero non guarda da che parte si vive meglio, ma da che parte sta il dovere.

Adesso si potrebbe dire che l’uomo e la donna del basso e a sinistra non guardano da che parte vanno i sondaggi, ma da che parte sta il dovere.

Ed il dovere, per noi zapatisti, è la nostra etica, l’etica del guerriero.

Già prima ho parlato della sua origine, delle fonti in cui ci abbeveriamo per essere quello che siamo e saremo.

Voglio solo ricordare quanto segue:

L’etica del guerriero si potrebbe riassumere nei seguenti punti:

1. – Essere sempre nella disposizione di imparare e farlo. Due sono le parole fondamentali nel percorso del guerriero: “non so”. Mentre le “grandi teste”, come ha detto qualche volta il Comandante Tacho, soprattutto pensano e pretendono di sapere tutto, il guerriero si affaccia all’ignoto con la stessa ammirazione che si prova davanti a qualcosa di nuovo. Quando abbiamo intrapreso la strada che abbiamo indicato con la Sesta Dichiarazione, non abbiamo distribuito giudizi e ricette. Abbiamo ascoltato e guardato per imparare. Non per sostituire o dirigere, ma per rispettare. Il rispetto dell’altro, dell’altra, è come noi diciamo “compagno”, “compagna”.

2. – Essere al servizio di una causa materializzata. Non si tratta di lottare per chimere, né di ingannarsi sul nemico, la battaglia, le sconfitte, la vittoria. Sappiamo che ci sono e saranno dolori, alcuni senza nessun sollievo possibile, come il dolore della morte di Alexis Benhumea, il nostro compagno e studente di questa università, assassinato dal governo un anno fa. E ce ne sono altri che richiedono di coltivare pazientemente la rabbia, come quello di sapere delle nostre compagne e compagni carcerati di Atenco: Nacho, Magdalena, Mariana, per citare solo tre di loro.

Ma sappiamo anche che questi dolori che non cicatrizzano hanno una destinazione finale. E che questa grande causa che ci motiva non inibisce o subordina le cause di tutte le dimensioni, ma che si materializza precisamente in esse.

3. – Rispettare i predecessori. La memoria è l’alimento vitale del guerriero. L’acqua dove ci abbeveriamo è la nostra storia. Non solo come zapatisti, non solo come indigeni, non solo come messicani. Dove altri leggono e ripetono sconfitte, per giustificare così le rese, noi leggiamo insegnamenti. Dove altri vedono personaggi, leader ed eroi, noi vediamo popoli interi che compiono funzione di maestri a distanza, nel tempo, geografia e modo. La storia del basso non è altro che un’immensa memoria collettiva.

4. – Esistere per il bene dell’umanità, cioè, la giustizia. Attenzione: non ho detto “per prendere il potere”, né “per arrivare ad un incarico pubblico”, né per “passare alla storia”, né “per risolvere dall’alto ciò che è in basso”. Dico, invece, nominare e portare qua l’altro grande assente nel percorso di chi sta in basso: la giustizia. E non perché stia da qualche parte, nascosta, sperando che qualcuno che si crede illuminato la trovi e venga a regalarcela, ed i nostri calendari si riempiano di monumenti, busti e statue, ma perché è qualcosa che si costruisce come si costruisce tutto ciò che ci rende esseri umani, ovvero, collettivamente.

5. – Per questa battaglia che sappiamo difficile, ed interminabile aggiungerei io, dobbiamo dotarci di armi e strumenti che non hanno niente a che vedere con quello che adesso si trova nelle pagine di qualunque giornale o nei notiziari televisivi. Armi e strumenti che non sono altro che le scienze, le tecniche e le arti. E tra tutte queste, lo strumento della parola.

Per qualche circostanza di cui non parlerò ora, noi zapatisti tendiamo a vedere e guardare mondi per i quali non ci sono ancora parole nei dizionari.

Ma, così come guardiamo le cose lontane come se stessero dietro l’angolo, guardiamo le cose vicine ed immediate col riposo della distanza e del tempo che creiamo con la nostra propria geografia ed il nostro proprio calendario.

La cosa più importante (e la più dimenticata) è che il guerriero deve coltivare la capacità di guardare avanti, immaginare il tutto compiuto e finito, prevedere gli alti e bassi del cammino, i contrattempi e la loro soluzione. Deve essere saggio nella lotta, cioè: definendo quali sono i punti essenziali di una situazione, dove devono essere applicate le forze e quali battaglie si devono vincere o perdere.

Il guerriero deve porre attenzione e dedizione alle cose piccole ed alle cose grandi, quelle superficiali e quelle profonde, e tracciare così una specie di mappa tridimensionale dove ogni parte acquisisce un senso preciso secondo quanto dettato dal tutto, ed il tutto acquisisce ragione e legittimità solo in ognuna delle sue parti.

Quindi, il guerriero deve cercare il ritmo, ovvero, l’accompagnamento tra le parti del tutto. E non la velocità che finisce per tralasciare l’importante per rispondere all’urgente.

Nella nostra etica, dunque, si tratta di non pensare in maniera indegna, per non agire in maniera disonesta. Imparare sempre, sempre prepararsi, conoscere tutte le strade possibili, i suoi passaggi, le sue velocità, i suoi ritmi. Non per andare tutti, ma per sapere di tutti, camminare con tutti ed arrivare con tutti.

Non è all’oggi, all’immediato, all’effimero che guardiamo. Il nostro sguardo arriva più lontano. Fino là, dove si vedono un uomo o una donna chiunque, svegliarsi con la nuova e tenera angoscia di sapere che devono decidere del loro destino, che camminano nel giorno con l’incertezza che dà la responsabilità di riempire di contenuto la parola “libertà”.

Guardiano fino là, fino al tempo ed al luogo dove qualcuno regala qualcosa a qualcuno. Ed è così lontano che non si riesce a distinguere se è un fiore rosso o una stella o un sole ciò che passa da una mano all’altra.

La nostra etica ha questa destinazione.

Non solo per questo, ma anche per questo, perchè sappiamo che vinceremo…

Molte grazie.

Dall’auditorium Che Guevara, nell’altra Città Universitaria della UNAM.

Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, Giugno 2007

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