Oaxaca: il ritorno impossibile
di Luis Hernández Navarro
La Jornada
23 settembre 2006
Ad Oaxaca è impossibile ritornare allo stato di cose esistente prima dell’inizio del conflitto. Un governo statale con a capo Ulises Ruiz non è viabile. Il sistema regionale di dominio si è spezzato e la repressione non ne garantisce la ricostruzione. Non c’è modo di tornare indietro.
Teoricamente, l’unico modo in cui Ulises Ruiz potrebbe continuare a governare è che il governo federale utilizzi la violenza contro il magistero ed i villaggi, mentre tenta di dividere il movimento popolare oaxaqueño. Ma neppure così si potrebbe garantire la sua permanenza. Ogni volta che si sono represse le proteste, la società si è mobilitata ed ha risposto con una grande combattività, mettendo da parte tutte le sue differenze e radicalizzando le sue azioni. Lungi dal servire da dissuasione, la coercizione statale ha stimolato la resistenza contro il capo dell’Esecutivo. Non c’è nessuna ragione per prevedere che adesso la reazione potrebbe essere diversa.
La presenza della Polizia Federale Preventiva o dell’Esercito nello stato avrebbe un altissimo costo sia per Vicente Fox come per Felipe Calderón, in un momento nel quale ambedue hanno forti problemi di legittimità. Nessuno crederebbe che il presidente eletto sia estraneo ad una decisione di tale portata. Anche se non è stato ancora insediato, ciò che si farà a Oaxaca sarà il primo atto della sua amministrazione.
Il trasferimento di truppe nello stato è un rischio e comporta grandi difficoltà logistiche. Sarebbe un’operazione che può costare molte vite ed aprire una profonda ferita in tutto il paese. Obbligatoriamente, le forze pubbliche dovrebbero concentrare le loro azioni nella città di Oaxaca e nelle principali vie di comunicazione. Non sarebbe difficile – anche se senz’altro rischioso – recuperare gli edifici pubblici, sedi dei poteri formali, arrestare alcuni dei dirigenti e togliere le barricate, ma non potrebbero obbligare i maestri a riprendere le lezioni. Oppure pensano di mettere un distaccamento militare o della PFP in ognuna delle scuole dello stato e nei suoi 570 municipi?
Davvero vale la pena di utilizzare tutto questo apparato repressivo per tenere al suo posto un governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), che il popolo non vuole? Vale la pena di pagare un enorme prezzo per puntellare un politico che nemmeno i suoi compagni di partito appoggiano davvero, perché li ha traditi?
La catena di comando-obbedienza nello stato si è frantumata. Molti disobbediscono apertamente al vecchio modo di comandare. Perfino un macchinario così gerarchizzato come la Chiesa cattolica si scontra con gravi problemi di disciplina. L’arcivescovo, allineato col governo statale, ha tentato di frenare la partecipazione alle proteste dei fedeli raggruppati nelle comunità ecclesiali di base. Queste hanno aggirato quel veto unendosi alla lotta attraverso le organizzazioni indigene.
Si è detto che il governo federale è disposto a prolungare il mandato di Ulises Ruiz fin dopo il primo di dicembre, per designare un governatore sostituto che finisca il suo periodo ed evitare così di indire nuove elezioni. Il Partito Azione Nazionale (PAN) teme che nuove elezioni avvantaggino Andrés Manuel López Obrador, dopo il trionfo della coalizione Per il Bene di Tutti in Chiapas, e la sua possibilità di vittoria in Tabasco. Ma non è detto che succeda proprio così. La licenza dello sgovernatore Ruiz permette formalmente all’Esecutivo federale di eleggere un governatore locale ad interim di filiazione priísta, senza dover indire delle temibili elezioni straordinarie.
Nella soluzione del conflitto non esistono scorciatoie. La rottura del negoziato tra la Segreteria di Governo, il magistero e l’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (APPO) il 20 settembre, rende evidente che la rinuncia di Ulises Ruiz è la richiesta centrale a cui bisogna dare risposta. Enrique Rueda, dirigente della sezione sindacale dei lavoratori dell’educazione dello stato, ha proposto sistematicamente al movimento di recedere. Invariabilmente ogni azione di ripiego è stata respinta dai mentori in una consultazione dopo l’altra.
Queste contraddizioni possono essere un sintomo dell’esaurimento dell’attuale ciclo di proteste? No assolutamente. Non lo sono, nonostante che il governo dello stato punti a dividere il magistero dalle organizzazioni contadine ed indigene, proponendo aumenti per i lavoratori dell’educazione. Questa scommessa ha una base concreta: esistono reali differenze all’interno del movimento su come condurre la lotta. Però, contemporaneamente, ignora una debolezza sostanziale: le correnti politiche alla testa del movimento agiscono su un sostrato di dissenso sociale profondo. Colui che cerchi di negoziare col governo federale una “soluzione” al conflitto che non contempli le dimissioni di Ulises Ruiz, starà facendosi un harakiri politico. Scambiare la testa dello sgovernatore con specchietti economici segnerebbe la fine come leader sociale di colui che osasse proporlo.
Le differenze all’interno del movimento hanno una base materiale. L’APPO è stato un progetto creato e diretto dal magistero oaxaqueño, ma attualmente ha una vita ed una dinamica proprie. Conta con una propria direzione, alla quale partecipano degli insegnanti ma anche leader contadini ed indigeni. All’interno dell’Assemblea hanno peso forze con poca influenza nel magistero. La tensione tra gli uni e gli altri è inevitabile, ma ciò non significa che necessariamente portino ad una rottura.
Ulises Ruiz è già storia a Oaxaca. Con lui al governo, lo stato non ha futuro. Insistere a sostenerlo non riuscirà ad ottenere altro che una maggiore disgregazione politica nel paese.
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