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Narco News Issue #41

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Messico: punto interrogativo o cornucopia?


di Gianni Proiettis
La Jornada

20 luglio 2006

Di fronte all’attuale momento storico che il Messico sta attraversando, noi italiani che viviamo qui dedicandoci all’educazione o al giornalismo, restiamo sconcertati. Riuscirà il popolo a far rispettare i suoi diritti e soprattutto la sua volontà che tanto civilmente ha depositato nelle urne il 2 luglio? Sarà capace Andrés Manuel di uscire dal pantano dell’apparente sconfitta prima che lo stritoli un’anaconda (con tutte quelle che sguazzano liberamente da quelle parti)? Avremo mai la soddisfazione di vedere un Istituto Federale Elettorale efficiente e rispettato come fu quello di José Woldenberg? E gli elettori contenti e sicuri che la loro scheda elettorale sia stata registrata? Se a forza si colora di azzurro il paese [i colori del PAN – n.d.t.], i capi dei narcos ci metteranno sul loro libro paga per intonare le loro lodi divulgando i migliori narcocorridos [ le ballate che celebrano le gesta dei narcos – n.d.r.]? Dovremo andare a messa tutti i giorni? Televisa-Tv Azteca ci permetteranno di trasmettere i nostri servizi, pensare i nostri pensieri, sognare i nostri sogni? Potranno scrivere Elena Poniatowska e Carlos Monsiváis, o sarà considerato crimine di alto tradimento? Pemex sarà inghiottita dalla spagnola Repsol, che almeno parla castigliano, o dal mostro Enron? Oppure alla fine vincerà, ostinata, la società di quelli in basso e le sarà permesso di stendere cartelloni proprio nello Zócalo?

In assenza di Octavio Paz, i sociologi e gli antropologi già si domandano se è avvenuta qualche mutazione nella mentalità e nei comportamenti del messicano dal 1910 ad oggi. Settant’anni di PRI, non c’è dubbio, avrebbero abbrutito chiunque, con le sue leggi di Erode e di Hidalgo, gli innumerevoli stratagemmi, gli stimoli alla corruzione e la distribuzione clientelare di risorse e potere. Sei anni di PAN sono stati più che sufficienti ad indebolire gli animi e sentirsi presi in giro. Il cambiamento, quello che si dice cambiamento, sono solo alcuni milioni di lavoratori che sono andati dall’altra parte, altri milioni rimasti senza lavoro, alcune centinaia in più di donne morte a Ciudad Juárez, qualche altra stuprata dai poliziotti ed alcune vedove col marito ancora sepolto in miniera.

Sopporteranno i messicani la terza maxifrode in un secolo, dopo quelle del 1910 e 1988? Difficile rispondere, visto che nel 1910 si era prodotto quel movimento di massa che scatenò la Rivoluzione fondatrice, con Ricardo Flores Magón che orientava le masse, e nel 1988, al contrario, l’ingegner Cárdenas fece ritornare tutti nelle proprie case e preferì fondare un partito che adesso finalmente ha ottenuto un buon risultato. Si accontenteranno le tribù perrediste dei loro ricchi premi di consolazione e si dimenticheranno del popolo e del loro AMLO? O si uniranno a chi è deciso e disposto a difendere il suo voto resistendo alle sporche manovre della destra?

Anche se non siamo nati in queste terre, noi corrispondenti di altri paesi che amiamo il Messico condividiamo le paure e le inquietudini di milioni di messicani e, come loro, abbiamo dormito poco e male nella settimana postelettorale anche grazie ai giochi sadici dell’IFE [con riferimento alla notte in cui davano i dati poco a poco fomentando fino all’ultimo l’illusione che avesse vinto Amlo – n.d.r.].

Ci ha alquanto sorpreso che alcuni governi abbiano riconosciuto la presunta vittoria del candidato del PAN anticipando il verdetto finale del Tribunale Elettorale del Potere Giudiziale della Federazione (TEPJF). Non si sono accorti che così regalavano un potente sostegno ad un contendente in un processo che ancora è in sub judice? E se è facile che lo capisca Bush – che ha poi fatto un passo indietro – restano ancor più misteriosi gli auguri prematuri dell’Unione Europea e del presidente del governo spagnolo Rodríguez Zapatero. È possibile che gli interessi di alcune banche e di Repsol si pongano al di sopra di qualunque altra considerazione di carattere etico-politico-ideologico? Che l’economia prevalga sulle altre questioni?

Molti sappiamo che le prossime conclusioni dipendono dalla capacità di risposta del popolo, questa volta sì unito, senza differenze tra gli elettori di AMLO ed i semplici democratici, i neozapatisti ed i paleomarxisti, le bande di anarco-punk e le casalinghe. Senza dimenticare l’affidabilità delle istituzioni: saprà e potrà il TEPJF raddrizzare i torti, curare le ferite, in una parola, “ripulire le elezioni”, termine e concetto che esiste solo in Messico?

Un giorno del 1994, il deputato perredista César Chávez, che divenne membro della Cocopa e poi consulente del governatore Pablo Salazar Mendiguchía, si prese tutto il tempo di un pranzo in un ristorante di San Cristóbal de Las Casas per spiegarci i vari stratagemmi elettorali perfezionati dal PRI nell’arco di decenni al potere: l’urna embarazada [quella che contiene più schede del numero di votanti], la taquiza [quando invece di una scheda se ne mettono varie], el ratón loco [quando ti mandano da una sezione elettorale all’altra e non trovi mai la tua], el rasuramiento del padrón [quando un elettore scompare misteriosamente dalle liste elettorali], el mapachismo [chi si dedica professionalmente alle frodi elettorali], la compravendita di voti e credenziali, el acarreo [portare fisicamente le persone a votare], l’uso di programmi sociali, l’intimidazione. Arrivati al dolce flambé – eravamo giusto all’incendio delle urne – non aveva ancora concluso il suo resoconto.

Dopo questa impressionante lezione, sono rimasto con un’idea, ma non ho mai avuto di fronte un politico per esprimerla. Sarebbe utile ed auspicabile che i messicani imparassero, una volta per tutte, dai loro popoli indigeni che votano in forma manifesta, per alzata di mano o separandosi in gruppi visibili e contabilizzabili all’interno di una piazza. Dovremmo anche – tutti gli “occidentali” – ammettere che la regola della maggioranza che tanto ci inorgoglisce come fosse il culmine della democrazia, è meno giusta ed umana della ricerca del consenso e dell’unanimità praticata dalle comunità indigene.

Parlando solo del voto manifesto che taglierebbe la testa a qualsiasi frode, si può obiettare, immagino, che il suffragio segreto è sacro ed intoccabile. Ma, quale migliore difesa della volontà dell’elettore quella di vederla pubblicata, computabile, indistruttibile, esposta su una parete? Inoltre, i due sistemi di voto potrebbero coesistere tranquillamente lasciando all’elettore la scelta di esprimere il suo voto segretamente o pubblicamente. E la formula, immagino, sarebbe esportabile in tutti i paesi dove i modernissimi computer possono ammalarsi di epidemie contagiate da virus antichi.

Giornalista italiano residente a San Cristóbal de las Casas, corrispondente de Il Manifesto

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