Nessuna scelta per gli immigrati
Lezioni di immigrazione dall’Altra Campagna
di John Gibler
ZNet
30 aprile 2006
Molto del dibattito corrente sull’immigrazione si fonda su un errore profondo ed arrogante: la credenza che centinaia di migliaia di persone, soprattutto messicani, entrino negli Stati Uniti illegalmente alla ricerca di una vita migliore. Questa opinione ci dice che uomini, donne, e bambini rischiano le loro vite attraversando il confine Stati Uniti-Messico perché hanno scelto di cercare qualcosa di meglio.
Dopo avere trascorso più di tre mesi viaggiando attraverso 18 dei 31 stati del Messico al seguito della carovana dell’Altra Campagna dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, ho verificato una prospettiva molto diversa dietro l’emigrazione di massa verso gli Stati Uniti, la prospettiva di messicani che sono emigrati e poi ritornati, di quelli le cui famiglie sono andate via e non sono più tornate, di quelli che hanno resistito all’emigrazione e di quelli che si preparano per il lungo cammino verso il nord.
Nella loro esperienza, non è una vera scelta, non c’è nessuna ricerca di qualche cosa di meglio. C’è solamente la scelta tra giocarsi la vita contro i coyote ed il deserto, e scommettere sulla lenta ma certa povertà del lavoro nelle maquiladora, l’esproprio delle terre e la violenza politica dei gruppi mafiosi statali e locali. Questo è il crudele azzardo che il modello politico neoliberista in Messico, e gli Stati Uniti, chiamano libera scelta.
Ma il mito dice che i messicani attraversano il confine per raccogliere i benefici del capitalismo, lavorare sodo e guadagnare abbastanza soldi per comprare auto e vestiti più belli che in Messico, come se il Messico stesso non fosse un paese capitalista. Come se Messico e Stati Uniti non fossero firmatari, insieme al Canada, del Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord (NAFTA).
Dall’arrivo del NAFTA nel 1994 – anno dell’insurrezione zapatista – Messico e Stati Uniti hanno condiviso ufficialmente lo stesso modello di capitalismo, un modello che vuole eliminare la proprietà comunitaria della terra nelle campagne messicane, costringendo milioni di senza-casa a volare verso i campi dell’agricoltura multi-miliardaria degli Stati Uniti, le imprese edili e l’industria dei servizi.
E questa è una caratteristica standard del capitalismo: il rifiuto di vedere e considerare la violenza generata dal sistema, i milioni di contadini che coltivano per la loro sussistenza, le comunità indigene, e le piccole persone d’affari negli altri paesi, così come gli angoli dimenticati degli Stati Uniti – riserve, accampamenti di braccianti, ghetti – che sono tagliati fuori e rifiutati. Il filtro dell’Ideologia del Libero Commercio trasforma queste vittime delle politiche economiche escludenti in “liberi soggetti” e “attori razionali” che trovano la loro casa dove c’è mercato. Questa casa non è pero come potenziale consumatore, ma lavoro forzato, “alieni illegali”, lavoratori senza i minimi diritti di cittadinanza e contrattazione collettiva.
Ma il filtro si è rotto. Emigranti in tutto il paese occupano le strade per esercitare la loro volontà politica. Loro più di chiunque altro sanno che l’emigrazione messicana negli Stati Uniti è il risultato della politica economica, non del tempo cattivo o degli scarichi dei grossi tir o i jeans più stretti; che milioni di messicani che lavorano negli Stati Uniti, costruendo case, raccogliendo frutta, macellando le vacche, imballando i polli, rifacendo letti e servendo cappuccini, sono i profughi del NAFTA e l’inesorabile uragano economico del modello neoliberista.
L’emigrazione è stato uno degli argomenti principali dell’Altra Campagna. Dalle comunità indigene de Chiapas nel lontano sud alle città che circondano Città del Messico, non una sola riunione si è conclusa senza che ci fossero testimonianze delle pressioni economiche e politiche che costringono le persone a sradicarsi e rischiare tutto per trovare lavoro in terre straniere al nord.
Nel villaggio di montagna di La Veracruz, Querétaro, Dominga Maldonado ha preso il microfono per rivolgersi al subcomandante Marcos ed ai duecento abitanti di un villaggio riuniti nell’aula di una scuola per partecipare alla riunione dell’Altra Campagna. Maldonado, una donna forte sulla quarantina, si è scagliata contro il programma federale di riforma della terra che spinge a trasformare le terre comunali in proprietà private, costringendo contadini ed indigeni ad emigrare nelle grandi città e, soprattutto, negli Stati Uniti.
“Nelle nostre comunità ci sono ormai solo anziani e bambini”, ha detto, “molti restano là; alcuni muoiono per strada nel tentativo di attraversare il confine. Una volta dall’altra parte non sono trattati bene. Sono solo lavoro a basso costo e sono discriminati. Il Messico è diventato un allevamento di giovani che andranno a lavorare negli Stati Uniti!”.
A Tepexi del Rio, Hidalgo, Uiciulfo Quijano ha parlato a Marcos e ad una piccola folla di contadini seduta sui ceppi sotto un tetto di lamiera. Quijano, un uomo tarchiato di 42 anni, era andato negli Stati Uniti a visitare suo figlio – muratore clandestino – ed è rimasto lì a lavorare prima a New Orleans e poi in tutta la Florida per quattro anni. Sotto la luce di una lampadina che pende dalla tettoia, Quijano è venuto “a raccontare di come si soffre negli Stati Uniti”.
“Ci si rompe così tanto la schiena a lavorare per tante ore che l’unica cosa che volete fare è andare a casa a dormire”, ha detto. “Molti sopporta la fatica fisica, ma è il morale…. A volte dicevo a mia moglie: spero quasi che la polizia d’immigrazione mi prenda così che finisca tutto questo”.
Ad una riunione di cinque ore a Tonala, Chiapas, Jesus Pereda ha fuso la sua esperienza di migrazione nell’aforisma: “In questa regione producono talmente tante persone povere che le esportano”.
La logica è chiara: la povertà è il risultato di politiche imposte dalla classe dominante, e la povertà è il motore dell’emigrazione negli Stati Uniti.
Ma le testimonianze non sono limitate alle riunioni dell’Altra Campagna; affiorano dalle esperienze quotidiane attraverso il paese. Entrando in una farmacia, ordinando un caffè al ristorante, ascoltando musica nelle piccole città di montagna, parlando con i pescatori al porto, quasi ognuno che ho incontrato ha un membro della famiglia emigrato negli Stati Uniti.
A Morelia, Michoacan – lo stato che esporta la maggioranza dei lavoratori nei campi della California che ha un’industria agricola di 34 miliardi di dollari l’anno – ho parlato con Arturo Oliveras, un trentacinquenne muscoloso che passeggiava nella piazza centrale con la moglie ed il figlio. Oliveras ha lavorato da clandestino negli Stati Uniti per 10 anni come muratore a Houston ed Atlanta, raccoglitore di pesche e uva in California, nella industriale Central Valley.
Prima di emigrare, Oliveras lavorava la terra con suo padre. In un anno producevano 16 tonnellate di mais che vendevano a 2.600 dollari, metà dei quali andavano per pagare altri lavoratori. Un anno di lavoro fruttava poco più di 100 dollari al mese. Ma dopo il NAFTA, il prezzo del mais è crollato e loro non ce l’hanno fatta. Hanno così perso la terra.
Gli ho chiesto perché lui, e quelli che ha incontrato in 10 anni di lavoro clandestino, sono emigrati negli Stati Uniti.
“Per bisogno”, ha risposto.
E perché c’è così bisogno in Messico?
“A causa dei monopoli creati dal governo, a causa del razzismo presente in Messico, l’emarginazione e la povertà; ecco perché la gente vive con difficoltà”.
Oliveras ha attraversato il confine l’ultima volta nel 2000 a lavorare come muratore a Houston. Lui “ha resistito solo un anno”, mi ha detto, a causa del caldo e dei ritmi implacabili del lavoro. Ma adesso sta tornando.
“Tra circa venti giorni attraverserò di nuovo il confine. Andrò alla marcia”, mi ha detto riferendosi al primo sciopero su scala nazionale dei lavoratori immigrati il Primo Maggio. Oliveras non ha i duemila dollari necessari per pagare il coyote, ma lui ha amici e famiglia e dall’altra parte ed è disposto a rischiare per marciare con loro.
“I Messicani sono focosi”, ha detto, “ed il governo di là non l’ha calcolato”.
Questa potrebbe essere la prima volta nella storia degli Stati Uniti che gli emigranti rischiano le loro vite per attraversare il confine non per andare a raccogliere l’uva o in cerca di un salario minimo, ma per occupare le strade e protestare a gran voce contro un sistema che li ha sempre esclusi. Infatti, in poche settimane, il movimento dei lavoratori immigrati negli Stati Uniti ha realizzato quello che da anni solo sognano gli attivisti anti-guerra: loro hanno portato milioni di persone per strada e costretto Washington a prestare attenzione.
Tristemente, l’attenzione più probabilmente prenderà la forma della pacificazione e della falsità. Washington sa che una forza lavoro migrante in grado di scatenare uno sciopero nazionale di una giornata intera, sarebbe anche capace di proclamare uno sciopero di una settimana che metterebbe in ginocchio l’economia degli Stati Uniti, se non il crollo.
Siamo a due mesi dalla data prevista in cui il subcomandante Marcos e l’Altra Campagna arriveranno sul confine di Stati Uniti-Messico, prima a Ciudad Juarez e più tardi a Tijuana. E sembra che l’accoglienza sarà anche più vivace del previsto. L’Altra Campagna potrebbe spingere notevolmente gli immigrati messicani negli Stati Uniti ad un’ulteriore politicizzazione della loro ribellione, rifiutandosi di scegliere di ritornare allo status quo: sfruttamento ed esclusione. La più grande speranza per un cambiamento sociale antirazzista e dei diritti del lavoro negli Stati Uniti, ora cavalca su questa ribellione.
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