I popoli indios: passi verso l’unità, passi verso l’offensiva
Riunione dell’Altra Campagna con le città purhépecha del plateau di Tarasca in Nurío, con la presenza dei membri del CNI Centro-Pacifico
di Karla Garza
Indymedia Chiapas
4 aprile 2006
“Il mais è il nostro corpo e la nostra anima, i nostri antenati ci hanno lasciato questa eredità: che la vita è il mais, anche se non vale più nel nostro tempo… c’è un potere che ci vuole annientare e lo fa distruggendo la nostra vita, il mais” – dice Agustín González, comunero purhépecha di Nurío e mette in chiaro la situazione attuale dei popoli indios di fronte al potere. Di giorno in giorno valgono meno. Anche se non è così per la terra sulla quale oggi vivono, di giorno in giorno sempre più bramata dai ricchi.
Secoli di sottomissione, secoli di furto e di spoliazione, secoli di disprezzo, ma anche secoli di resistenza, di ribellione e di dignità sono oggi sul tavolo della riunione con il Delegato Zero nella comunità autonoma di Nurío, municipio di Paracho, la seconda con i popoli indios del Michoacán e sono anche presenti membri del Congresso Nazionale Indigeno della regione Centro-Pacifico per affrontare temi come: terra e territorio, la libera determinazione, l’acqua, il PROCEDE, PROCECOM, diritti e cultura indigeni. Ma questa volta, è già finito il tempo delle richieste, è il momento di agire.
“Cinque anni fa” – ricorda il Subcomandate Marcos – “siamo arrivati qui nella casa del purhépecha. Ci siamo riuniti qui col Congresso Nazionale Indigeno che aveva convocato decine di popoli indios di questo paese ed insieme avevamo elevato la nostra parola al potente reclamando il riconoscimento dei nostri diritti e della nostra cultura, come indigeni quali siamo.
Cinque anni fa abbiamo offerto al potente la parola, la nostra parola di dignità per chiedere un posto per noi in questa bandiera, la bandiera nazionale. I potenti ed i loro partiti politici ci hanno rifiutato quel posto, ci hanno tradito.
Tra quelli che ci hanno tradito c’è colui che oggi malgoverna le terre di Michoacán, colui che si dice governatore e che dice di preoccuparsi per la gente in basso. Da quella gente e dalla gente come lui, è arrivato il tradimento alla nostra offerta di dialogo e di accordi affinché questo paese riconoscesse gli indigeni, quelli che hanno portato questa nazione sulle sue spalle, col suo sangue.
Ora non veniamo ad offrire dialogo né accordi, ora li riconosciamo come nostri nemici. Ora riconosciamo che la guerra di conquista non è finita e che lo straniero vuole impadronirsi un’altra volta delle nostre terre grazie alle trappole governative. Non stiamo più cercando il dialogo con colui che comanda, ciò che stiamo volendo è che già cada, che sparisca e che insieme a lui cadano e spariscano i ricchi che ci hanno sommersi nella lunga notte in cui stiamo soffrendo da 500 anni. È arrivata l’ora di sollevarsi in un gran movimento civile e pacifico per occupare con la forza il posto che ci spetta in questa nazione messicana. Non serve già più aspettarsi dal potente un ascolto attento. Non gli interessiamo. Ci disprezzano.
Siamo arrivati alla casa del purhépecha per incominciare a fare insieme ad altri un gran accordo che torni ad alzare la ribellione come nella rivoluzione messicana, come nella guerra d’indipendenza, ma ora facendo attenzione a che i popoli indios non rimangano poi dimenticati nell’ora del trionfo”.
Tutte le voci in questo forum sottolineano questa esasperante “guerra di conquista” contro i popoli indios, come senza bemolle la definisce il Subcomandante Marcos. Ci sono qui, per esempio, rappresentanti della comunità di Bancos di San Hipólito, waxarikas di Durango, che soffrono per l’invasione delle loro terre per mano di falsi proprietari che si sono comprati titoli di propietà altrettanto falsi, oltre ai tentativi di dividerli ed al mancato riconoscimento da parte del governo delle loro autorità tradizionali e delle loro modalità di organizzazione.
Vengono pure dalla comunità di Ostula, della costa del Michoacán, a raccontare delle pressioni a dare i suoi lotti di spiaggia, per poter entrare nello “sviluppo”, per autorizzare le esplorazioni minerarie, divisi da conflitti per limiti ed invasioni, senza i più elementari servizi di base.
Arrivano dal paese nahua di Ayotitlán, di Jalisco, dove resistono ai colpi ed alle ingerenze nella vita comunitaria di due grandi imprese minerarie, padrone il consorzio Peña Colorada, che non solo sfruttano la terra ma anche i lavoratori.
Vengono dal paese hñahñu di Atlapulco, dello Stato del Messico, che nonostante sia il “posto dove nasce l’acqua”, ne è stato spogliato da 60 anni.
Dai popoli otomíes di Guanajuato, i cui centri cerimoniali sacri sono stati oltraggiati dai Telefoni che non sono del Messico, ma di Carlos Slim.
Dai popoli chichimecas di Paso Colorado e di San Ignacio, di questo stesso stato, contrro i quali si è accanito il governo perché si rifiutano di cedere una grande estensione di terra che la sorella del presidente Fox programmava trasformare in zona alberghiera.
Dal paese purhépecha di Comachuén, con le sue terre devastate ed indebitati fino al collo con le transnazionali che hanno avvelenato i terreni con la menzogna della “rivoluzione verde”.
Dal popolo purépecha della Meseta Tarasca al quale, come a molti altri, vietano di utilizzare i boschi in modo corretto e sostenibile, come sanno farlo, a causa della presenza delle grandi imprese del legno che invece si arricchiscono con un disboscamento smodato.
Appena un cenno, appena alcuni esempi tra migliaia. Questo pomeriggio si ascoltano e si riconoscono. Sanno di far parte della stessa mappa di abusi che le grandi imprese stanno disegnando in tutto il paese col consenso e la collaborazione dei governi a tutti i livelli, di un governo che – come dice bene Gaudencio Mancilla, di Ayotitlán – “sta in mano ed a portata di mano degli impresari”.
E la costante – come segnala Carlos González, della CNI regione Centro-Pacifico – è che sulle comunità e sugli ejidi si sta facendo pressione affinché accettino “la politica che concatena tutte le spoliazioni ed i furti, che è il programma di certificazione dei diritti ejidali, così come quello dei diritti comunali”.
Raccontano i comuneros di Ostula, l’unica comunità della costa del Michoacán che ha resistito al PROCEDE, che hanno notato per questo programma un’insistenza maggiore di quella che c’era per altri programmi, che “dopo un po’ è come se li dimenticassero e non ce ne parlano più, invece col PROCEDE continuano ad insistere, ci dicono che ora si chiama PROCECOM, che ora misureranno le terre, che dobbiamo aver fiducia. Alcuni avvocati ci hanno detto che anche se non accettiamo il governo lo farà lo stesso, ma noi diciamo che non lo permetteremo”.
A volte l’imposizione è sfacciata, come ad esempio nel caso della comunità di Limón, in Jalisco, dove la Procura Agraria ha convocato una riunione straordinaria per sostituire il commissariato che si oppone al programma. In altri posti ancora, invece la pressione mostra la sua faccia più criminale, come nel Sierra di Manantlán dove un commissariato che si opponeva al programma è stato vigliaccamente assassinato lo scorso 13 marzo.
“Vediamo che l’offensiva si sta acutizzando. È necessario che ci opponiamo con tutte le nostre forze perché ora sta venendo avanti un processo molto più accelerato di privatizzazione delle terre comunali” – segnala Carlos González.
E le comunità indigene sanno che questa guerra non potranno affrontarla se non sono tutte unite.
“Noi aderiamo all’Altra Campagna con gli altri popoli indios perché ognuno ha un suo modo distinto di vivere, di organizzarsi, però queste differenze ci arricchiscono” – sottolinea il commissariato di San Hipólito e la sua voce diventa parte dell’appello che da qui si lancia all’unità del movimento indigeno nazionale dentro all’altra campagna.
Un’unità minacciata pure dai programmi del governo – come ribadisce Arturo Rubio, comunero di Nurío -: “Il tema agrario, l’unica cosa che ha fatto è stato dividere il nostro territorio. Abbiamo problemi coi nostri fratelli di San Felipe che loro (quelli di riforma agraria) non hanno mai risolto. Lo risolveremo noi e lo risolveremo senza far caso a quelli che stanno in alto. Risolveremo i problemi in basso”. È un conflitto che le autorità pretendono di “risolvere” costruendo un’autostrada che “a noi servirà solo per emigrare, per andare negli Stati Uniti a lavorare come manodopera a basso prezzo: a questo ci servirà”.
Rodolfo Jiménez, un altro purhépecha va oltre: quello che ci manca – dice – è “ricostruire il tessuto sociale indigeno” e avverte che “la cultura del capitale sta permeando le nostre comunità indigene, ci sono già atteggiamenti di egoismo, di mancanza di solidarietà, di supersfruttamento delle nostre risorse naturali”.
Paulino Ramírez, di Bancos de San Hipólito, ribadisce la relazione tra spoliazione e frammentazione che si portano dietro i programmi governativi: “ci promettono che con quei programmi sarà più facile risolvere i conflitti agrari, ma abbiamo visto che servono solo per dividerci. Per aver creduto in quei programmi una comunità delle tre che formano il popolo waxarika, San Andrés, non sta già più con noi. Vorremmo che a voi dipiacesse come dispiace a noi”. E conclude: “Difenderci è mantenere l’unità”.
Ma difendersi, dice il Subcomandante Marcos, non basta più: “Noi pensiamo che questa guerra di conquista è in una tappa così sconsiderata, così sfrenata che non si fermeranno davanti a nulla. L’unico modo per fermarla, sarebbe che tutte le resistenze ora disperse si unissero. Se le resistenze continueranno ad essere disperse, continueranno ad essere eroiche, continueranno ad essere valorose ed arriveranno ad essere cosa del passato. Se proseguiamo soli ognuno per nostro conto, saremo sconfitti”.
È qui dove si mette a fuoco – spiega – lo sforzo dell’Altra Campagna. “Perché secondo noi per fermare questa guerra ci sarebbe bisogno di un tale livello di organizzazione che la resistenza non basta più. Perché, se riusciamo ad unire tutte le forze per resistere a quell’offensiva, perché allora fermarci lì? perché ci fermiamo a chiedere allo stato che non sia cattivo o ai partiti politici che non rubino più? perché chiedere al PRD che si comporti bene? o al PAN che torni al confessionale e al PRI che ritorni nella tomba? Se riusciamo davvero ad unire tutte queste forze a livello nazionale e tutta la ribellione che implica, perché fermarci a riformare il paese se avremmo già la forza per distruggere completamente il sistema che ci tiene così? Abbattere il governo ed abbattere e distruggere il sistema che ci sta promettendo la distruzione.
Noi pensiamo che per affrontare questa guerra di conquista, dobbiamo andare andare da loro, passare all’offensiva, perché non è più possibile sopravvivere in resistenza se non organizziamo questa insurrezione a livello nazionale. È arrivata l’ora, dobbiamo alzarci. E dobbiamo decidere se è per non metterci mai più in ginocchio o semplicemente per sperare che l’altro riconosca che esistiamo. Secondo noi, ci si deve alzare e rimanere in piedi per il resto della storia”.
La comunità di Nurío che ne sa di autodeterminazione, serve da anni da scenario del possibile. Intorno al campo di pallacanestro della squadra locale (che si chiama “Los Purhépechas” e dove si tiene l’evento), c’è di guardia la polizia comunitaria, più attenta alla riunione che ad altro.
Imbrunisce nella casa del purhépecha, mentre un’altra notte, la lunga notte dei cinquecento anni, sfiora la sua fine.
Giungono le note di una banda di fiati ed i popoli indios si alzano, disposti a rimanere in piedi per il resto della storia.
(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)
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