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Narco News Issue #39

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I popoli indios di Acaxochitlán, stranieri sulla loro stessa terra

Interventi e frammenti dell’intervista con i rappresentanti dei popoli indigeni di Acaxochitlán del 25 febbraio


di Karla Garza Martínez
Indymedia Chiapas

1 marzo 2006

Tulancingo, Hidalgo - Quando le grandi imprese straniere si impadroniscono delle nostre ricchezze naturali ed i nostri popoli indigeni non possono utilizzare quelle risorse per la loro sopravvivenza, è evidente che questo paese sta sottosopra.

Lo sanno bene i nahuas di Acaxochitlán che nella riunione con aderenti all’Altra Campagna in Tulancingo, spiegano le condizioni delle loro comunità: “Non ci hanno permesso di andare avanti perché abbiamo tre caciques. Ci hanno usati per avere loro il meglio e noi rimaniamo come porcellini. Abbiamo alberi, abbiamo terre, ma il problema è che non ce li hanno lasciati”.

Le 22 comunità indigene (che costituiscono la maggioranza della popolazione municipale, il 70 per cento) sono in effetti trattate come una scomoda minoranza da sempre e dall’attuale sindaco priísta, Miguel Ángel de la Fuente, che governa un popolo del quale non conosce la lingua (il náhuatl ).

Un rappresentante dell’organizzazione Aitepe Macehual Tlapalehuiani (in náhuatl, “aiutare i popoli indigeni”) spiega che il “delitto”, è anche solo “se uno taglia pochi rametti”, anche solo la legna per la casa… Spiega: “se tagliamo un albero c’imprigionano per 20 anni” e la lunga lista di vessazioni ed umiliazioni si accumula improvvisamente nella gola: riesce appena riesce a controllare il pianto per continuare: “il governo dice che lo fa per proteggere gli alberi.Ma noi non possiamo usare la legna per lavare, per cucinare, per niente”.

Invece, i presidenti municipali ed i caciques, che sono gli stessi in Acaxochitlán da più di 40 anni, la famiglia Sosa e soci, dispongono a volontà delle risorse naturali, concedono permessi mafiosi a chi li paga e supersfruttano i boschi, che -come raccontano i membri dell’organizzazione- in alcuni comunità sono già spariti.

I boschi sono nostri, li seminiamo e curiamo, ma i poliziotti municipali quando arriva qualcuno che dà loro denaro, lasciano tagliare gli alberi”. Non si tratta solo di questo, ma -come raccontano più tardi- quegli stessi poliziotti scortano i camion dei veri taglialegna, quelli che spianano i pini a centinaia. Per ottenere la complicità della polizia municipale o di PROFEPA, il procedimento è lo stesso, citare il nome degli amici e metter mano al portafoglio. Oppure, approfittare della congiuntura elettorale, perché attualmente, quelli che collaborano alla campagna elettorale sono quelli che hanno permessi.

Non si tratta solo dei boschi, prima queste comunità sono state vittime del furto e della spoliazione di un’altra delle loro fonti di sopravvivenza, il bestiame. “Noi avevamo del bestiame, agli anziani ed alle anziane che non possono difendersi, rubano il bestiame. Siamo andati al pubblico ministero e ci hanno detto che non possono aiutarci perché si tratta di un animale e non di una persona. Ci hanno preso il nostro bestiame. Se n’è andato tutto”. In buona parte -raccontano- grazie all’opera di Gerardo Sosa che a quel tempo era a capo dell’Università di Hidalgo ed ha concesso false credenziali a falsi studenti, che le presentavano alla polizia locale che permetteva loro di portarsi via cavalli, agnellini, ecc.

Ed è stato allora, dopo che hanno “ripulito” i villaggi dal loro bestiame che hanno cercato qualcos’altro da rubare a loro e la loro voracità si è scagliata così sui boschi, con tanto di violenza: “Venivano i soldati, i poliziotti giudiziari, non si sapeva nenche più chi e prendevano i nostri, versavano loro tehuacán [una bibita gassata] su per il naso, perché dicessero dov’era la legna”.

Poche vie d’uscita sono rimaste loro dopo questo. Raccontano con voce rotta, che alcune famiglie scendono a Tulancingo per cercare di vendere i loro prodotti, ma riescono solo ad essere rubati e sgomberati dalle autorità municipali, del PRD, naturalmente. Sono da tutti lati, accerchiati dal disprezzo e dalla persecuzione.

E si aggiungono a questa rete di dominazione pure i rappresentanti religiosi -denuncia un altro rappresentante nahuatl. “I religiosi pagati dai governanti dicono al popolo devi fare questo, non possiamo sapere la verità. Anche i sacerdoti sono diventati codardi e sono i nostri difensori spirituali” o dovrebbero esserlo, ma no, fanno parte invece della muta che divora i popoli indios.

Aitepe Macehual Tlapalehuiani è un’organizzazione nuova, ma il suo lavoro continua già da sei anni, quando era nella clandestinità, perché -come spiegano i suoi rappresentanti-: “Chiedono molte carte lavorare per il popolo. Ma se noi non possiamo parlare, credete che possiamo utilizzare un computer? Ci hanno bloccato”.

Perfino i programmi di governo sono utilizzati per rompere la loro unità: “quei progetti sono stati utilizzati per dividerci. Quello di Oportunidades, a volte ce lo tolgono, a volte dicono che non è arrivato il denaro. Non possiamo andare avanti. Alcuni lavorano negli Stati Uniti, altri preferiscono ammazzarsi”. Un altro ne parla con tristezza e nostalgia: “chissà come staranno i ragazzi che sono andati a lavorare dall’altra parte!”.

La storia di abusi è lunga e vecchia. Nelle elezioni passate, per esempio, “ ci sono state centinaia di elettori di più. Andavamo ad occupare la presidenza perché il candidato non potesse insediarsi. Ma quel giorno il nostro leader indigeno è stato ammazzato a colpi di arma da fuoco nella sua stessa casa”.

Raccontano pure che 6 anni fa “la gente si alzò e si ribellò, perché ci sequestravano sempre la nostra gente e venivamo a domandare dove stavano e dicevano ‘chi lo sa!’. Allora una volta che è successo che è venuto il procuratore…” e la comunità, arrabbiata, lo trattenne e cercò di negoziare: “se ci date la nostra gente e vi ridiamo il signore”.

Ma per l’ennesima volta, i delitti sono delitti solo se li commettono i poveri. Le autorità denunciarono per sequestro vari membri della comunità. Quattro di loro hanno già terminato le loro condanne (fino a 6 anni), uno è ancora incarcerato ed altri due sono latitanti.

La prigione non è, però, l’unica risposta dei potenti: “Se lei li denuncia come stiamo facendo noi ora, i dirigenti li mandano via dalla terra, dal pianeta terra, quelli che li denunciano”.

L’ultimo compagno, che i Sosa ed i loro alleati “hanno mandato via” dal pianeta, è stato Aldegón Ortega, assassinato solo il 13 del dicembre scorso. E finora nessuno ha investigato sulla sua morte. I suoi amici ed i parenti temono di far la stessa fine e tacciono e aspettano. “I figli non l’hanno seguito perché sapevano che andavano alla morte”.

I villaggi di Acaxohitlán non vogliono però vendetta: “Che ci lascino liberi”, è tutto quello che chiedono. Aspirano all’autonomia, sperano di poterci riuscire con le loro modalità di governo e di organizzazione. “Le risorse rimarrebbero a noi ed i poliziotti corrotti non li faremmo arrivare. Vogliamo essere autonomi per distribuire il denaro che ci compete e che non arriva mai perché lo tengono le autorità”.

Sognano, fanno progetti, spiegano che potrebbero avviare un vivaio di pesci nella cascata del fiume Chimalapa, se solamente le autorità lasciassero libera l’acqua che ora utilizzano solo come deposito rifiuti.

Potrebbero anche amministrare le loro stesse serre, in lso, mentre adesso sono solo i mozzi di quelli che si sono impadroniti delle loro terre: “gli ingegneri sono così stronzi che non ci insegnano neanche a seminare le nostre piante”.

Sanno anche che la loro stessa gente non si tradirebbe da sola perché “colui che vogliamo eleggere, noi lo conosciamo, non come ora che solo loro si conoscono”. Sarebbero -come sarebbe giusto- governati da uno di loro, un indigeno náhuatl, non un meticcio che “ci usa come bestie da soma e non come esseri umani”.

Non perdono la forza né la speranza. Non temono la morte e sono disposti a continuare a lottare per i loro diritti. Contano perciò sul consiglio e sull’appoggio dei loro nuovi compagni: le organizzazioni, i gruppi e gli individui che compongono l’Altra Campagna in Hidalgo e che il Delegato Zero loda: “Se potessero garantirvi, non di darvi l’elemosina, perché non state chiedendo elemosina, ma che tutte le brigate che hanno fatto per il Chiapas potessero dirigersi ora qua, allora s’incomincerebbe a costruire quello che chiamiamo un altro modo di fare politica. Il primo dovere dell’altra è con quelli che la formano, con i vostri stessi compagni e compagne”.

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