“Ogni merce che compriamo porta la storia di sfruttamento, di sofferenza e di umiliazione del lavoratore”
La parola del Subcomandante Marcos in Altepexi, Puebla
di Subcomandante Insurgente Marcos
Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale
15 febbraio 2006
Compagni, compagne, buona notte… Momenti fa, lì nella Casa della Cultura stavamo ascoltando varie storie di come si dà lo sfruttamento ed il dolore.
Abbiamo ascoltato compagne giovani parlando dello sfruttamento nelle maquiladoras. Abbiamo ascoltato anche uomini, giovani parlare delle maquiladoras. Abbiamo ascoltato una voce di rabbia e di indignazione dai compagni e dalle compagne della Mixteca che ci hanno fatto capire che così come lottano per far sì che la terra possa partorire i suoi frutti, allo stesso modo lottano per farsi un posto in queste terre ed in questa patria che chiamiamo Messico. Ascoltiamo i dolori dei popoli indios, ascoltiamo anche i dolori dei quartieri popolari di Tehuacán.
E tutti quei dolori erano un po’ dispersi o separati, come pezzi di un puzzle, ma è arrivato questo compagno che si chiama Martin -che voi conoscete già- e ce l’ha messo tutto insieme. Con un intervento molto brillante -che non potrei ripetere- ha sistemato tutto in un unico puzzle e ci ha fatto capire come ciò che c’è dietro a tutte queste ingiustizie che si subiscono nel campo e nella città ha a che vedere con un sistema.
Ci ha spiegato come vanno d’accordo gli stessi che stanno sfruttando nelle maquiladoras con gli altri che stanno spogliando delle loro terre i contadini e come tutti questi vadano d’accordo con i politici. Sia nelle loro relazioni di amicizia, di famiglia o semplicemente di denaro.
Questo compagno deve essere protetto -l’ha detto lui ed anche se non l’avesse detto- dalla minaccia di attentato che gli è arrivata. Dobbiamo proteggerlo, perché lui rappresenta molto qui nella Valle di Tehuacán e -questo forse non lo sa- rappresenta anche molto nella lotta che stiamo alzando in tutto il paese. E non aspetteremo che gli succeda qualcosa per poi protestare, ma già immediatamente ora, con la minaccia che ha ricevuto e con gli antecedenti che ha raccontato del pestaggio e della prigione, perché non aspettiamo che gli succeda qualcosa per elevare la nostra voce.
E avvertiamo già da adesso il governo statale, il governo federale ed i potenti della Valle di Tehuacán e del Messico che questo compagno -così come tutta la gente, tutti voi della Valle di Tehuacán- non è più solo, siamo già tutti nell’Altra Campagna, in un movimento nazionale. E tutto questo movimento nazionale sta con questo compagno. Vi chiediamo che lo proteggiate, noi da lontano -visto che continuiamo il nostro viaggio- resteremo però in attesa di sue notizie. Ma andiamo via con un po’ con fiducia perché abbiamo ascoltato da tutti voi, o dalla gran maggioranza, parole di affetto e stima per questo compagno.
È con tutto questo, con lui e con tutti voi, che noi vogliamo alzare ed unire l’Altra Campagna. Dalle storie che abbiamo ascoltato, bisogna capire una cosa. Forse dobbiamo andare dalla fine verso l’inizio: la fine è quando compriamo una merce, quando compriamo un prodotto: un pantalone, per esempio, o una giacca, o un chilo di zucchero.
Allora, andiamo al negozio, o al mercato, o al centro commerciale che abbiamo visto nelle pubblicità stradali, o in televisione, o sulle riviste, o sul giornale, perché hanno fatto vedere un modello che fa proprio bella figura con quei pantaloni. Se è donna, hanno messo una ragazza magra e bella flessuosa, o un ragazzo molto attraente -come dicono le donne. Quindi, uno va al mercato e vede i pantaloni e s’illude… però quando se li mette ci rimane male, no? Può darsi che debba tirar in dentro la pancia, o insomma dovrà fare qualcosa perchè i pantaloni gli stiano bene… -a volte bisogna metterci il burro o qualcosa del genere per poterli infilare-.
E, per riprendere il filo, vediamo i pantaloni che sono lì, quella merce, vediamo il prezzo -non so quanto potranno costare quei pantaloni, perché quelli che porto io me li fanno là le compagne ed i compagni nei laboratori zapatisti-: non so se potranno costare, 300 o 400 pesos, a seconda del marchio. E vediamo che sono di un determinato colore, li prendiamo e paghiamo. E nel momento in cui abbiamo i pantaloni nuovi, non vediamo tutto quello che è successo affinché quei pantaloni o quella giacca -o come spiegava il compagno che taglia la canna da zucchero- o quel chilo di zucchero arrivassero fin lì.
E forse, quello di cui abbiamo bisogno è che ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa, ci domandiamo la storia che l’ha resa possibile. E quindi, con questi pantaloni o con questa giacca potremmo arrivare alla storia delle maquiladoras. Ma nei pantaloni non sta scritta la storia dello sfruttamento che ci hanno raccontarono le compagne ed i compagni un momento fa. Non ci stanno le giornate lavorative -quella storia la conoscevamo già, 100 anni fa erano così le giornate lavorative- di 12, 14 e perfino di 16 ore, come ci hanno spiegato. Non ci sta l’umiliazione che subiscono da parte dei capisquadra, o dei direttori, o dei caporali, come si chiamavano 100 anni fa. Non sta lì il dolore, l’umiliazione che subiscono, lo sfruttamento del quale sono prodotto dopo una giornata di lavoro molto lunga che rende appena un po’ di denaro.
E lì sta la trappola del sistema e quel pezzo del puzzle -come che abbiamo ascoltato un momento fa nella Casa della Cultura e che Martin ha espresso molto bene- è quella merce che non è così come ci sembra quando la compriamo. E questa è una trappola del capitalismo, del sistema nel quale stiamo. Il fatto che appaiono le cose ed i prodotti e non appare chi li ha prodotti, chi li ha creati, chi li ha fatti… e che cosa ha sofferto chi li ha fatti.
E soprattutto, ciò che paghiamo per quei pantaloni, per quella giacca, a chi va? E se incominciamo a domandarci questo, vediamo che quel denaro non va a chi ha prodotto quella merce. Non va alla compagna o al compagno della maquiladora che ha cucito quei pantaloni, che li ha colorati, che li ha sistemati ed ha messo l’etichetta affinché potesse arrivare fino al negozio dove noi li stiamo comprando.
Insomma quella quantità di denaro che stiamo pagando va nelle tasche del padrone di quell’impresa. E forse, il padrone di quell’impresa -se andiamo a fondo- risulta che è uno dei grandi politici, o il parente di uno dei grandi politici o, nella Valle di Tehuacán, ha il cognome Gil, che -come abbiamo ascoltato varie volte- rappresenta varie generazioni di sfruttatori. E forse, se andiamo a fondo di quei nomi, scopriamo che dietro di loro ci sono grandi imprese di altri paesi: del Nordamerica soprattutto.
Ed allora, risulta evidente che in quella merce, in quei pantaloni o in quella giacca, sta scritta una storia che è stata ricoperta quando hanno colorato i pantaloni di azzurro jeans e, quei residui di tinta sono andati ad inquinare l’acqua della Valle di Tehuacán. Ed inquinando quell’acqua, hanno colpito i villaggi e le comunità che dipendevano da quelle sorgenti. E da lì è successo quel che è successo: perdendo l’acqua e quindi la terra hanno dovuto emigrare negli Stati Uniti e stanno cercando lavoro là... un lavoro qualsiasi, forse da camerieri, da cuochi o da lavoratori del campo. E continuano a camminare per una delle grandi città degli Stati Uniti e vedono nelle vetrine quei pantaloni e quella giacca che stanno lì con un marchio nordamericano, che stanno lì con un prezzo in dollari e che loro sanno che sono stati prodotti qui dai loro stessi familiari, qui in Tehuacán.
Ma questa storia non si conosce, compagni e compagne, non si sa. In un paio di pantaloni, in una sola giacca, in un chilo di zucchero, non si vede la sofferenza dei lavoratori per poter esporre lì quei prodotti. E, soprattutto, non si vede lo sfruttamento. Non si vede nelle tasche di chi rimane la ricchezza prodotta da quella merce.
Ed allora, è lì dove i compagni e le compagne delle maquiladoras, gli insegnanti, i popoli indios -che stavano qui un momento fa-, si domandavano: “bene, che succede se lasciamo lì il tessuto, le cuciture, i bottoni, il filo, le macchine, il casermone della maquiladora e ce andiamo via noi?”. Potrà il caporale, il padrone, il proprietario, il signor Gil o chi gli dà la spalla, potrà far sì che quelle cose si uniscano e che ne esca un paio di pantaloni che faccia far bella figura ad un artista o ad un signore in televisione?
Loro stessi si rispondono: No. No, qui ciò che è necessario è la forza lavoro. La capacità di un uomo o di una donna che sa come unire i pezzi e produrre un pantalone di qualità. Perché ascoltiamo pure dalle compagne delle maquiladoras che da loro si esige quantità e qualità. Non importa se sono malate, non importa se hanno dei problemi familiari, non importa se devono battagliare per arrivare al lavoro -dato che ci spiegavano che vivono lontano e devono prendere i trasporti- e se arrivano tardi, le buttano fuori. Allora, è necessario tutto questo per unire i pezzi e poter fare dei pantaloni.
Così, loro stessi si domandano: e che cosa succede se quello che se ne va via è il padrone? se se ne va il caposquadra? se va via il direttore? i lavoratori e le lavoratrici possono fare i pantaloni? E si rispondono: “sì”. Ed allora, qui c’è un elemento che è colui che lavora, colui che fa i pantaloni, colui che fa la giacca o colui che fa lo zucchero, nel caso della canna.
Ma c’è uno che non lavora ed è quello quello a cui rimane la ricchezza in mano.
Allora, come Martin ci ha spiegato “qui nella Valle di Tehuacán ed in Puebla, è così e così e questi sono i nomi” ed ha spiegato bene chi è la famiglia o quali sono le famiglie responsabili della spoliazione delle terre nella Sierra Negra, dell’inquinamento delle acque, della privatizzazione della terra e dell’acqua, delle risorse naturali. I responsabili della repressione, dei licenziamenti dei lavoratori, dei bassi salari, è organizzata di come la maquilla per estorcere e supersfruttare -dicevano loro- i lavoratori e le lavoratrici -e vediamo che si tratta degli stessi nomi- e noi ci domandiamo, in tutto il paese, chi è il responsabile di questo?
Chi è il responsabile del fatto che il lavoro non sia pagato con giustizia? Perché la persona che lavora 16 ore è povera e perché quello che non lavora è ricco? Allora, noi abbiamo detto: se possiamo far sì che nel nostro paese la gente in basso, umile e semplice, s’incominci a domandare perché stanno così le cose, incominceramo ad incontrare gente come noi. Gente umile e semplice che è quella che fa quei prodotti che usiamo e che non è la responsabile del prezzo: è responsabile del lavoro, della ricchezza che quel prodotto ha, che ci serve per un po’ come pantaloni o come giacca, o per addolcire il caffè, o l’acqua o la bibita che stiamo bevendo con lo zucchero.
È qui che è necessario che si ascolti la voce di colui che lavora, la voce di chi fa quel prodotto, si ascolti e racconti la storia. Facciano conto che comprate un paio di pantaloni e che invece di essere colorato com’è, ci sia sopra scritta la storia: “io, Pedro Pérez… io, Juana Martínez… ho fatto questi pantaloni il tal giorno e mi è costato lavoro farlo e mi pagano tanto”. Immaginatevi che ogni merce che compriamo portasse la storia di sfruttamento, di sofferenza e di umiliazione del lavoratore che l’ha prodotta.
Allora ogni merce, ogni pezzo di vestiario, ogni chilo di zucchero, ognuna delle cose che consumiamo si convertirebbe in un agitatore che direbbe alla gente in ogni momento: “in questo paese non c’è giustizia”, “in questo paese non sono giuste le cose”. “Non è corretto” diciamo noi là in Chiapas e vuol dire che le cose non stanno come dovrebbero essere. Perché come dovrebbe essere è che chi lavora dovrebbe vivere bene e chi non lavora dovrebbe vivere male.
E che cosa passerebbe se su quei pantaloni stesse scritta -su un foglietto di carta nelle sue tasche, così quando uno se li sta mettendo e sistemando lo trova- la storia dei lavoratori licenziati di quella ditta maquiladora, di quell’impresa che ha molti nomi che noi abbiamo ascoltato qui? Ed allora, un altro, da un’altra parte e che sta comprando quei pantaloni -per esempio un giovane nella città del Messico, dell’UNAM-, compra quei pantaloni, mette il biglietto del metro e si trova in mano un foglietto e conosce la storia di Altepexi.
E dice: lì c’è un uomo, una donna, che ha la mia stessa età -perché sono tutti giovani quelli che hanno parlato, uomini e donne-, ha la mia stessa età e gli sta succedendo questo. Ed il padrone che lo sfrutta si chiama così ed il politico che appoggia quel padrone si chiama così e questo compagno o compagna che ha fatto questi pantaloni sta dicendomi: “questo sono io, qui c’è quello che faccio. Tu, che cosa pensi o che cosa fai?”.
Allora fate conto che invece di ritrovare quel foglietto di carta nei pantaloni, troviamo un movimento che faccia questo. E che i giovani del Distretto Federale, ma anche i giovani indigeni zapatisti che stanno in montagna -i miei compagni e le mie compagne guerriglieri e guerrigliere- ascoltino la vostra voce, quella che ascoltavamo un momento fa, quella che voi stessi avete parlato. E vengono a sapere com’è lo sfruttamento nella Valle di Tehuacán, di come sta la spoliazione delle terre e dell’inquinamento nella Sierra Negra.
Ed incominciano a rispondersi alla domanda che sale dalle storie di ognuno e la risposta è: sì, sì, siamo compagni; sì, abbiamo lo stesso responsabile delle nostre sofferenze. Questo è ciò che vuole fare l’Altra Campagna, compagni e compagne. E qui non importa se ci sono 100, 200 o 3mila compagni.
Ciò che importa è che quelle storie si dicano e si parlino. Perché una cosa è leggere un libro su com’è la situazione nelle maquiladoras ed un altra cosa molto differente è che un lavoratore o una lavoratrice, licenziati da quella ditta per aver preteso i loro diritti -diritti che ci sono già nella Costituzione… non stavano facendo una rivoluzione né la presa del potere-: quello che stavano chiedendo è che li pagassero giusto, per una giornata di lavoro. Dunque, invece di vedere il libro -come ha spiegato il compagno che ci criticava per guardare le telenovelle-, invece di leggere il libro: aprire l’ascolto all’altro compagno. Conoscere la sua storia ed imparare a dire quel “noi” di cui abbiamo anche parlato. Imparare a dire: siamo compagni di lotta.
Di questo si tratta in questa prima tappa: di dire la nostra storia, di dire la nostra parola. Di mettere la storia non solo di sfruttamento ma anche di rabbia ed indignazione che abbiamo, non nel prodotto che facciamo, ma sì nell’ascolto di un altro, nel cuore di un altro. Per dirgli: “qui ci sono io, questo sono, conoscimi, questa è la mia dignità”. Ed anche di questa parola “dignità”, qui se n’è parlato molto.
E la dignità per noi zapatisti significa: “questo sono io e chiedo che mi rispettino e riconosco che tu sei quello che sei e ti rispetto pure”. Ed allora, segue un’altra parte: “mettiamoci d’accordo, compagno, compagna”. “Mettiamoci d’accordo, perché la tua situazione è la stesso che vivo anch’io, anche se là in Chiapas”. Perché così come abbiamo ascoltato la storia di dolore e di rabbia della compagna della Mixteca che ci spiegava: “noi… ci hanno separato, in parte stiamo a Puebla, altri in Veracruz, altri in Oaxaca, ma siamo sempre gli stessi e stiamo graffiando la terra per tirarle fuori qualcosa. E ci dà dolore e rabbia ma dobbiamo vincerla, dobbiamo convincere quella terra che ci dia il frutto di cui abbiamo così bisogno”, così dobbiamo convincere questo paese che c’è un posto per noi, dobbiamo convincere questo paese che siamo già stufi di lui -ne abbiamo fin sopra la testa- che siamo disgustati da un sistema che sta fregando tutti ed ognuno di noi in modo diverso.
Ed allora, forse torneremo ad affrontare -come vi dicevo ieri- la solitudine del nostro tavolo, della nostra casa, del nostro lavoro, della nostra strada, del nostro campo, della nostra montagna, della nostra comunità, ma già in un altro modo: sapendo che quella solitudine sta incominciando a sgretolarsi -come si sgretolano le cose di per sé- per non tornare mai più, come succede in basso.
Ed allora noi, quando vi dicevamo “qui nell’Altra Campagna non si tenta di venire a vendervi promesse” anche se tanto convenienti che se nessuno le vuole comprare e si regalano -anche se dopo si fa il conto e risulta che son costate molto care, come stanno salendo care adesso le campagne elettorali-. Qualcuno ad Oaxaca faceva il conto e diceva: “bene, se tutto quello che si stanno consumando nelle campagne elettorali, i partiti politici lo investissero in una zona di Oaxaca, nella più povera, si sarebbe costruito immediatamente: ci sarebbero scuole, ospedali, migliorerebbero le abitazioni, il lavoro della terra…”.
Ed allora risulta che tutto quel denaro che si dovrebbe usare per ciò che dovrebbe, cioè per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, si sta usando perché i politici si facciano pubblicità.
Ma la verità è che costa lavoro quello che stiamo facendo, compagni. Ieri dicevamo che dovevamo graffiare la storia perché non avevamo altra cosa, per mettere lì il nostro nome, le nostre mani, la dignità e la forza ed il coraggio del nostro cuore. Affinché non appaia mai più nella storia, come importante, la partecipazione della famiglia Aquiles Serdán nella rivoluzione messicana, ma per mettere qui in quella storia, quello che stiamo facendo oggi, in Altepexi, ed i nostri nomi, il nome delle nostre organizzazioni nel movimento che cambierà davvero -cioè, dal basso ed a sinistra- la storia di questo paese e questa situazione di sfruttamento.
E, forse, arriverà il giorno in cui un’altra volta affronteremo quei pantaloni jeans o quella giaccia e lì ci sarà tutta la storia, non solo quella dello sfruttamento, ma pure la storia dalla ribellione che incominciò nel febbraio del 2006 in Altepexi e che, insieme a tutto quello che si alzò nel resto del paese, illuminò ciò che ora si chiama Messico e gli incominciò a dar la lezione d’amore più bella che si è ricevuto su queste terre, da quando sono state create. Quella di chi lotta, insieme ad altri, affinché tutti abbiano giustizia, democrazia e libertà.
Questo è quanto propone la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, compagni. Propone ad ognuno la domanda: chi sei? Ed allora che ognuno risponde: “questo sono, questo è il mio dolore, questa è la mia lotta, questa è la mia rabbia e questo è quello che voglio”. Ed allora, domanda: e come farai? E la stessa Sesta Dichiarazione gli risponde: “unisciti!”. Unisciti con noi, pur essendo ciò che sei: pur essendo indigeno, o giovane, o un lavoratore, o una donna, o uno studente, o una insegnante. Unisciti in tutto il paese con le altre storie. E spiegheremo a tutti che cosa sta succedendo.
E quando incominciamo a spiegare questo -come ci ha spiegato Martin un momento fa- incominciamo a scoprire che c’è un sistema, il sistema capitalista: c’è chi possiede le cose e c’è chi le fa produrre. E colui che ha le cose è quello rimane col denaro in tasca e colui che le fa produrre, ha solo il necessario per vivere ed, a volte, neanche quello.
Perché nella riunione di un momento fa abbiamo ascoltato una compagna di una comunità che dice: “...io ascolto che qui chiedono migliori salari o condizioni di lavoro e noi non abbiamo neanche il lavoro per poter chiedere un salario migliore”. E ci raccontava di come cuce palloni da calcio e le pagano 10 pesos per ogni pallone. Non so quanto costi sul mercato, ma deve andare oltre ai 100 pesos -credo- un pallone da calcio. Dieci volte più di quello che pagano quella compagna per cucire il pallone. E se riesce male? La multano di 30 o 40 pesos per aver cucito male il pallone. Allora dice: “e noi che? noi siamo ancora siamo più abbandonati di voi” -diceva ai compagni delle maquiladoras-.
Ed in altre parti della Repubblica, in Chiapas, in Campeche, in Quintana Roo, in Yucatan, in Tabasco, in Veracruz e, ora un poco anche in Oaxaca, ascoltiamo molte altre storie come queste: di gente che dice “noi stiamo ancora peggio”, che vuol dire: siamo ancora più disperati. E mentre lo stanno dicendo, stanno già dicendo che c’è un cambiamento, perché prima non avevano a chi dirlo e non avevano chi li ascoltasse. E non avevano, soprattutto, chi rispondesse senza bugie, senza promesse false, senza vane speranze.
Nell’Altra Campagna si trova questo: lottiamo insieme perché tutto questo non accada mai più. Perché nessuno più si debba fermare -una donna matura con un figlio in braccio- e dire: “noi non abbiamo niente, non abbiamo neanche nulla di cui lamentarci”. Che non torni a succedere questo nel nostro paese. Che non torni a succedere che qualcuno è disprezzato per la sua lingua, per la sua cultura, come nel caso dei popoli indios. Che nessuno possa essere perseguitato ed imprigionato per aver elevato la sua voce o per insegnare ad un altro a difendere i propri diritti, come i compagni del Centro dei Diritti Umani e del Lavoro qui della Valle di Tehuacán. Che nessuno torni ad essere licenziato dal lavoro perché ha un problema di salute o un problema familiare. Che nessuno possa essere obbligato a lavorare più della giornata lavorativa.
Perché se ci sono state una rivoluzione e dei grandi movimenti operai per una giornata lavorativa di otto ore, come mai così tanto tempo dopo, un’altra volta, ci troviamo con storie di giornate lavorative di più di dodici ore. E sì -come dicono i compagni-, se la legge ti dice che una cosa è proibita, ma purtroppo non serve compagni e compagne ad altro che a pulirsi dopo essere andati in bagno. E questo è ciò che fanno i ricchi con le leggi che presuntamente dovrebbero proteggerci. Ed ora non gli basta. Ora quello che vogliono fare è altre leggi perché niente possa più difenderci. Affinché non ci siano più centri dei diritti umani o consiglieri che ci dicano che bisogna lottare per questa legge, perché intanto non esiste più.
Come più di dodici anni fa, quando c’era Salinas de Gortari, che tolse la legge della Riforma Agraria e tolse il diritto alla terra così non si poteva più richiedere terra… Così, fra poco, toglieranno del tutto le leggi lavorative. E già qualcuno -uno dei maestri- ci aveva avvisati: cambieranno tutta la legge lavorativa. In modo che non ci sia già più diritto a scioperare, perché non ci sia più diritto ai sindacati. Ed allora, i compagni e le compagne delle maquiladoras si fermano, come quella compagna, e dicono: “non possiamo lottare neanche più per un sindacato indipendente, perché ormai non ci sono più sindacati”. Non possiamo neanche chiedere che ci facciano un contratto di lavoro fisso, non temporaneo, ma a tempo indefinito e poter acquisire diritti ed aver diritto alla Previdenza Sociale, perché ormai non ci sono più contratti. Ci sono solo accordi verbali. E secondo quanto produci, questo è quanto ti do.
E dato che ci dicono -nelle storie che ci hanno raccontato- che ogni volta che andavano a reclamare loro rispondevano: “non ce n’è, fai pure quello che ti pare”, noi nell’Altra Campagna vi diciamo che c’è già una risposta per quando ci dicono “fai quello che ti pare”... allora, noi rispondiamo: quello che vogliamo è una ribellione nazionale. E che tu come padrone, tu caporale, tu politico, tu legge che stai appoggiando questa situazione, che ve ne andiate. E che si aprano le porte della prigione, ma non per far entrare, ma affinché escano tutti quelli che sono detenuti ed entri il signor Gil ed il signor… ed entrino tutti quelli che si chiamano come loro, che stanno facendo queste cose. Tutti quelli là in alto, che stanno costruendo il loro benessere sul dolore, sulle lacrime, sul coraggio e sulla rabbia di tutti noi.
Se qualcuno domanda che cos’è quello che vuole l’Altra Campagna? È questo, compagni e compagne. Cambiare totalmente il paese, radicalmente, dal basso ed a sinistra.
Noi vogliamo ringraziarvi perché in questo poco tempo che siamo stati qui in Altepexi -felice la terra che ha partorito tutti voi, terra degna- ci avete insegnato molte cose che non avevamo imparato in tanti anni passati in montagna.
E quando ritorneremo a parlare con i nostri compagni e con le nostre compagne -perché i nostri capi sono le comunità indigene zapatiste- racconteremo loro la vostra storia, storia di dolore sì, ma anche di rabbia. E loro, i nostri compagni e le nostre compagne, sentiranno grande il loro cuore perché sapranno che qui, nella Valle di Tehuacán, hanno dei compagni e delle compagne… che parlano un’altra lingua, che forse hanno un altro colore, che hanno un’altra storia, ma hanno la stessa rabbia ed indignazione e, soprattutto -come è stato ripetuto qui- la stessa decisione di cambiare tutto questo.
La storia si sta avviando di nuovo, compagni e compagne. E qui dobbiamo scegliere: se ci tocca leggerla o ci tocca scriverla. Nell’Altra Campagna ci tocca scriverla. E qui che ognuna decida se vuole leggerla o che un altro gliela racconti, o venir a sapere ciò che è successo dai poemi, da stornelli o dai libri.
Continuiamo a pensare che il nostro lavoro in questo dell’Altra Campagna, in questo movimento di ribellione nazionale, è un poco come quello che fanno i compagni giovani graffittari sui muri -qui in questo villaggio ed in altri paesi che abbiamo visto durante il nostro percorso-: non si tenta di dipingere un’insegna, si tenta di tirar fuori dal muro ciò che ha di nascosto, ciò che non vuole dire, di far sì che parli e gridi. Ed ora che siamo venuti camminando fino qua, ne abbiamo visto alcuni che sono come un grido, che è lì dipinto nella parete e che sta dicendoci: “questo sono, non voglio che le cose continuino così”. Ogni graffito sta dicendoci “già basta”, “mai più, facciamo qualcosa”.
E, in un modo o nell’altro, questa prima parte dell’Altra Campagna, questa prima parte del gran sollevamento nazionale che stiamo facendo, è questo: stiamo graffiando le terre di questo paese lasciando marcato con le nostre unghie, con le nostre mani, con la nostra rabbia, col nostro cuore, un Già Basta! molto più grande di quello del primo di gennaio del ‘94. Più eroico, più fermo e più deciso.
Così, in questo stiamo, compagni e compagne. Vi ringraziamo nuovamente per la lezione che ci avete dato oggi. Speriamo di essere stati dei bravi alunni. Ed in dicembre, quando ritorneremo di nuovo, per stare un po’ di più con voi, potremo dirvi se abbiamo fatto bene i compiti. Perché il compito che ora abbiamo è di portare la vostra parola -quella che abbiamo ascoltato qui-, la vostra storia -quella che ci avete raccontato- affinché la conoscano tutti i compagni e tutte le compagne in tutto il Messico. Grazie compagni, grazie compagne.
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